top of page

Un estraneo‌ ‌nel‌ ‌letto.‌ ‌Coppie‌ ‌miste‌ ‌tra‌ ‌peculiarità‌ ‌e‌ ‌risorse


Riproponendo il format della conversazione libera intorno a un caffè aperto all’inedito, abbiamo voluto incontrare Alberto Mascena, Psicologo e Psicoterapeuta ad orientamento Sistemico-Relazionale, Presidente di Aifcom (Associazione Italiana Famiglie e Coppie Miste) e Professore a contratto di Psicologia Sociale presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università Bicocca di Milano.

 

Il caffè che segue è il risultato di un percorso di riflessione aperto all'inedito in una composizione a quattro significativa: Alberto, professionista che si occupa di interventi interculturali con individui, coppie e famiglie a partire da un vertice sistemico-relazionale; Michele, psicologo e specialista in psicologia della salute che si occupa di questi interventi a partire da un vertice teorico-metodologico differente e comune anche alle altre due interlocutrici; Carlota, psicologa e specialista in psicologia della salute, spagnola e italiana di adozione, in una coppia mista; Ganda, psicologa e specialista in psicologia della salute, professionista che si occupa di interventi in contesti multiculturali da un vertice maggiormente vicino a quello dell’etnopsicologia critica.

Competenze ed esperienze differenziate nell'intervento con le coppie e le persone di cultura diversa dalla propria hanno quindi caratterizzato un assetto e una impostazione di conversazione aperta a sviluppi volutamente non pre-orientati e pronta a riconoscere il valore delle diversità.

Accanto a noi, la figura perturbante dell’altro, di uno straniero che ci ha accompagnato nel corso di tutta l’intervista e che ha assunto, spesso, le sembianze di chi si approccia a uno stesso oggetto di lavoro a partire da un modello di intervento diverso dal proprio.

Grazie Alberto per aver accettato il nostro invito a condividere con noi questa conversazione sulla salute, che inaugura la nostra rubrica “Cafè Touba”. Vogliamo innanzitutto contestualizzare questa conversazione. Il nostro Blog, come avrai ben capito in incipit, ha particolarmente a cuore le questioni incentrate sulla salute, intesa come capacità dell’individuo e dei gruppi di adattarsi in modo flessibile alle situazioni che l’ambiente o, in senso più ampio, i contesti gli pongono dinanzi. In questo senso uno degli obiettivi del nostro Blog è quello di occuparsi della promozione della salute intesa come un processo dalle molteplici sfaccettature. A tale proposito ci chiedevamo se la promozione della salute, così intesa, possa avere, in qualche modo, una relazione con il tuo campo d’intervento in materia di coppie e famiglie miste. Se, anche per te e citando Canguilhem (1998), parlare di salute può significare in un certo senso acquisire un margine di tolleranza alle infedeltà dell’ambiente.

Grazie per questa domanda. Mi piace molto l’idea di salute come capacità di adattarsi e soprattutto di sviluppare modalità flessibili di interazione con sé stessi, con gli altri e il mondo. In particolare, in quest’epoca fatta di repentini e costanti cambiamenti. Dopotutto come ricorda Watzlawick (1986) l’unica costante della vita è il cambiamento. Penso infatti che questa capacità di adattarsi al cambiamento sia una delle caratteristiche fondanti le relazioni nelle coppie e nelle famiglie miste. Questo fenomeno rappresenta una trasformazione dei costumi rispetto al modo di fare coppia e famiglia che, in particolare, ha interessato il nostro Paese negli ultimi venti/venticinque anni e che sta assumendo un significato ideologico e politico di un certo tipo. Queste persone sfidano un dato modello culturale di famiglia, ponendo in luce le difficoltà, ma anche la bellezza di far coesistere le differenze. Quando parlo di differenze mi riferisco a tutto ciò che la coppia percepisce come tale.

Quando ci si accosta al concetto di coppia mista si ha come la percezione di un fenomeno rispetto al quale più si cerca di definirlo, più questo ci sfugge. Quando parlo di differenze mi riferisco a differenze interculturali, interreligiose, interetniche, ma anche alle differenze di colore della pelle. Pur trovandoci fuori da un’ottica biologista, che risulterebbe alquanto aberrante, il colore della pelle ancora oggi assume una connotazione culturale tristemente rilevante. Per cui intraprendere una relazione con un partner di pelle nera diventa una sfida importante, tanto più se quest’ultimo è di religione musulmana.

Parlare di salute o, per usare un altro concetto altrettanto importante in questo tipo di coppie, resilienza, vuol dire chiedersi cosa fare di queste differenze, dal punto di vista della coppia. Mentre il professionista deve chiedersi come trattare queste differenze. Ciò che emerge dalla mia esperienza in Aifcom e come psicoterapeuta di coppia, è che tali differenze nella relazione tra partner non assumono particolare importanza, ma diventano salienti nella relazione tra questi e le proprie famiglie di origine o quando i figli di queste coppie prendono parte alla vita sociale. Per esempio, partecipare alle prime feste di compleanno, ovvero quando il gruppo dei pari, attraverso i processi di socializzazione secondaria, rimanda al bambino una differenza. In questo caso ci troviamo di fronte al concetto di differenza inteso in chiave interazionista. Non parliamo di una differenza intesa in senso ontologico e aprioristico. Quindi parlare di salute nelle coppie miste vuol dire parlare di differenze che assumono un’importanza all'interno di specifici contesti. Questo ci permette di promuovere salute, intesa come un processo utile ad una specifica coppia, ma non generalizzabile a fini scientifici. In tal senso la necessità di produrre categorie, utili a spiegare fenomeni più ampi, ci induce a sovrastimare queste differenze rendendole inadeguate e prive di senso quando avulse dal contesto.


Quando parli di resilienza mi sembra che tu sottolinei un aspetto di risorsa da intendere come una caratteristica peculiare delle coppie e delle famiglie miste, quasi come a voler attribuire un’accezione diversa a questo termine, rispetto a quello più comunemente inteso.

Se, in qualche modo, è vero che le differenze tra partner caratterizzano tutte le coppie, tanto più questo è riscontrabile nelle coppie miste. Ma le sfide sociali che sono chiamate a fronteggiare questo tipo di coppie sono molto più complesse: si pensi al razzismo o alla difficoltà del partner migrante nell'inserimento sociale e lavorativo. Queste coppie e famiglie, spesso, ricevono sollecitazioni ambientali molto intense, per cui in un certo modo sono chiamate a resistere a queste “pressioni”, dotandosi di una particolare resilienza pur di non essere escluse dall'arena sociale. Il concetto di salute per queste coppie è strettamente interconnesso a quello che ho definito “il diritto a stare male”. Quando queste coppie incontrano delle difficoltà nella relazione tra partner date dalle differenze interreligiose, dalle differenze culturali nell'educazione dei figli, eccetera, il più delle volte sembrano non legittimate socialmente a lamentarsi dei loro problemi, scontrandosi con frasi del tipo: “Te l’avevo detto…!” da parte di amici, parenti o familiari. Spesso questo tipo di fenomeno porta a sottacere quelle difficoltà date da frizioni interne alla coppia, come se non fosse concesso, appunto, il diritto a stare male. Una qualsiasi lamentela da parte di uno dei partner verso terzi, comporterebbe, in tal senso, un’ammissione implicita di aver rotto una regola nello sposare un partner appartenente all'outgroup. La mancanza di un supporto sociale, che sappiamo essere un fattore predisponente alla vulnerabilità, spesso è uno degli ostacoli che queste coppie incontrano.

A.I.F.Co.M. in questo senso rappresenta un importante punto di riferimento per queste coppie e famiglie. L’Associazione, infatti, organizza a livello territoriale dei gruppi di auto mutuo aiuto, nei quali, spesso, sentiamo affermare: “Se non ci fosse questa realtà non sapremmo con chi parlare di certe questioni.”


Quello che affermi Alberto è molto interessante e penso che sottacere le proprie difficoltà sia un po’ il problema di tutte le coppie nelle situazioni in cui non è stata negoziata e significata l’unione tra le due persone. Penso, per esempio, alle unioni che nascono senza il consenso della famiglia di origine. A tal proposito volevo chiederti se la negazione del “diritto a stare male” non sia una questione che riguarda in generale tutte le coppie. Inoltre, vorrei farti anche un’altra domanda. Dai discorsi fatti finora mi sembra di capire che, in particolare quando parli di coppie miste, fai riferimento ad unioni tra persone che hanno un colore della pelle diverso e, più nello specifico, con un credo religioso differente. Ma queste coppie dove uno dei partner ha la pelle nera sono veramente così diverse dalle altre coppie miste?

Per quanto riguarda la prima domanda sono d’accordo con te rispetto al fatto che la negazione del diritto a stare male possa riguardare tutti i tipi di coppie dove l’unione non sia stata negoziata, significata e, aggiungerei, legittimata. Ma, in senso antropologico, nelle coppie miste questo fenomeno viene rafforzato dalla rottura di una regola endogamica, predisponendole a vivere maggiori livelli di disagio. La rottura di uno schema che prevede determinate categorie sociali crea una maggiore frattura tra queste coppie ed i propri contesti di riferimento, per cui si ha un minor senso di legittimazione. Quanto detto fin qui, e con questo mi collego alla tua seconda domanda, tende ad amplificarsi soprattutto quando il partner straniero della coppia appartiene ad un gruppo etnico fortemente stigmatizzato, o comunque oggetto di un certo pregiudizio. Tuttavia, ci sono altri fattori sociali che possono interagire nel determinare un certo disagio.

Per esempio, ho conosciuto una coppia eterosessuale italo-marocchina, dove i coniugi, lui uomo italiano e lei donna marocchina musulmana, dichiaravano di non aver avuto nessun tipo di problema nelle relazioni sociali fino all’11 settembre del 2001. Dopo l’attacco alle torri gemelle, quando la narrazione islamofoba dei media ha iniziato a diffondersi influenzando il senso comune, questa coppia ha iniziato a percepire un certo distanziamento sociale da parte del vicinato, degli amici e dei familiari, dovuto all'appartenenza religiosa della donna. Per quanto riguarda questa tipologia di coppia c’è da aggiungere la variante di genere. Il più delle volte, infatti si incontrano uomini musulmani sposati con donne Italiane, in quanto l’Islam è una religione patrilineare, per cui è consentito al maschio di poter prendere in moglie donne appartenenti alle cosiddette “genti del libro”, ovvero di religione musulmana, ebraica o cristiana. Seppur con qualche deroga, invece, alle donne islamiche non è consentito sposarsi con uomini appartenenti ad altre religioni.

Tutto questo ci suggerisce che le coppie miste rappresentano anche il precipitato di contingenze storiche, politiche e culturali, che vanno ad interagire con il sistema coppia. In qualche modo mi sto rifacendo alla teoria ecologica di Bronfenbrenner (1979), secondo la quale tutti sistemi, dal macrosistema al microsistema, interagiscono in modo bidirezionale determinando cambiamenti a vari livelli.

Quindi, sì, nelle coppie miste dove si ha una differenza data dal colore della pelle, per dirla con Bateson (1997) si ha una differenza sostanziale, percepita come importante. Ci sono molte ricerche che confermano questo, in particolare si è visto che il padre di un uomo bianco che sposa una donna di colore si mostra parzialmente aperto a tale unione, mentre si ha un atteggiamento di maggiore chiusura nei padri di donne bianche che sposano uomini di colore, per esempio, dell’Africa subsahariana. Insisto sul colore della pelle nera perché, purtroppo, come già accennato, è avvertita come differenza sostanziale. Tuttavia, si deve tener conto di differenze multilivello come l’etnia, la cultura, la religione e, non per ultimo, il genere.


Prima hai usato il concetto di “rottura endogamica” come l’infrazione di una regola interna che in qualche modo comporta una discontinuità nel processo culturale con le proprie origini. Ma rispetto all'individuo che effettua una scelta esogamica non credi che ci sia effettivamente una volontà di infrangere una regola e che questo possa caratterizzare il modo di stare nelle relazioni di quella specifica persona? D'altronde le radici culturali, pur non essendo un assoluto, rappresentano un importante retroterra esistenziale.

Provando a cambiare punto di vista vorrei farti un’altra domanda. Parlando della coppia italo-marocchina, poc'anzi, dicevi che dopo l’attentato alle torri gemelle è cambiata la percezione del gruppo sociale verso la coppia o verso la donna musulmana. Ma siamo certi che invece non sia cambiata la percezione della donna, la quale sentendosi parte di un gruppo religioso, per quanto molto eterogeneo, si identifica con chi ha arrecato una così grave offesa e che, di conseguenza, questo abbia potuto attivare dei vissuti paranoici nei confronti del gruppo sociale autoctono?

In genere quando parlo di questi argomenti cerco di assumere una doppia posizione, provando a mettermi nei panni della coppia e, allo stesso tempo, ad adottare il punto di vista di chi affronta la tematica in modo naif. Perché se dico che c’è “rottura della regola endogamica” vuol dire che c’è un riconoscimento implicito di una regola di gruppo. Quindi parliamo di confini cognitivi, culturali, gruppali.

Trenta anni fa, nel nostro Paese, questi confini erano percepibili tra nord e sud. Oggi, però, se uno di noi dovesse sposare un partner del nord o, viceversa, un partner del sud, nessuno si sognerebbe di dire che ci troviamo di fronte alla rottura della regola endogamica. Questo per dire che i confini di gruppo, pur essendo storicamente circoscritti, vengono costantemente ridefiniti e risignificati dall'interazione sociale. Ciononostante, ogni caso è a sé. Perché, pur esistendo una soggettiva percezione dei confini, è importante comprendere come questi vengono utilizzati. I confini parlano anche della diversità, la quale può essere spiegata attraverso categorie semplicistiche e aberranti o mediante l’attribuzione di categorie di senso. In quest’ultimo caso, le differenze tra ingroup e outgroup non diventano pretesti attraverso i quali si pongono le basi per una discriminazione sociale, ma elementi per favorire l’integrazione e la coesistenza della diversità.

Io non credo che il problema di queste coppie si ponga nell'esistenza delle differenze, ma nell'utilizzo strumentale che di esse può essere fatto. Per esempio, tali differenze potrebbero essere utilizzate in modo perverso per esercitare dinamiche di potere, che sottendono l’idea secondo la quale esisterebbero gruppi maggioritari e gruppi minoritari.

Per rispondere alla seconda domanda, trovo molto interessante il cambiamento di prospettiva che proponi rispetto alla coppia italo-marocchina. Quando faccio formazione insisto molto sul fatto che quando la coppia mista parla di differenze, non dobbiamo partire dall'idea che noi abbiamo di tali differenze, ma dall'idea che la coppia ha di sé stessa e che orienta le sue modalità di narrarsi. Alcune di queste coppie non si percepiscono miste, pur essendo tali. Altre coppie, pur avendo elementi che potrebbero, per certi versi, non includerle nel panorama delle coppie miste, si percepiscono tali. Per esempio, una donna di origine eritrea, italiana da tre generazioni, sposata con un uomo italiano, potrebbe percepirsi in una coppia mista.

Può essere, quindi, che la donna musulmana di cui parlavamo abbia qualcosa di irrisolto rispetto alle proprie origini o rispetto al proprio mandato migratorio, per cui potrebbe sentire il bisogno di tornare in Marocco. Oppure per lei l’evento dell’11 settembre potrebbe essere particolarmente importante sentendo un forte legame alla umma musulmana, legame che per un’altra donna della stessa religione potrebbe essere irrilevante.

Quindi, in termini sistemico-relazionali, ci troviamo sempre in una logica circolare, per cui l’arena sociale risponde in un modo agli eventi e, di contro, abbiamo una reazione della coppia che rafforza o indebolisce la narrazione che proviene dall'ambiente sociale.


È interessante notare che una donna di origine eritrea italiana da tre generazioni sposata ad un italiano possa percepirsi all'interno di una coppia mista. Mi viene da pensare che la percezione di questa donna potrebbe perfino incarnare il precipitato di una storia dove, forse, una modalità relazionale tipica della colonia, attraverso una trasmissione transgenerazionale, sia giunta fino a lei. A tal proposito, mi chiedevo, quando in una coppia mista attraversata da dinamiche di questo tipo nascono dei figli, cosa succede? Quali sono gli aspetti da attenzionare?

Quando si parla di figli nelle coppie miste, l’invito che faccio sempre è di porsi prima delle domande su alcune questioni. Mi viene in mente una coppia italo-marocchina - lei italiana, lui marocchino e musulmano praticante - che ho incontrato per un’intervista di ricerca. I due si percepivano in perfetta armonia, ma nel momento in cui ho iniziato a fare domande su un eventuale progetto genitoriale si è innescato uno scontro di idee abbastanza acceso sulle scelte educative in caso di nascita di un eventuale figlio.

Questo per dire che alcune coppie miste costruiscono il proprio rapporto come una impalcatura che poggia su fondamenta poco solide fatte di ideali poco radicati per sorreggere la nascita di un figlio. Rispetto a certe convinzioni apparenti, un figlio apre tutta una serie di questioni relative alle origini dei genitori. Alcuni genitori sentono forte il passaggio di un testimone intriso di bisogni identitari legati alla propria genealogia. In letteratura si parla di “orgoglio etnico”, ovvero il grado di appartenenza e di fedeltà di ogni partner al proprio gruppo culturale o religioso. Ovviamente più sarà alto il conflitto educativo nella coppia genitoriale, maggiori saranno i problemi nella relazione con i figli. In genere, tali conflitti possono essere affrontati con la possibilità di contemplare una terza via, nella quale sia possibile proporre ai figli un’educazione mista, che rimanda la scelta ai figli in un secondo momento.

Infine, c’è da aggiungere che, dove non arrivano i genitori con i loro limiti, arriva spesso l’intuito virtuoso dei figli. Questi, in assenza di una mediazione genitoriale, propongono loro stessi un’alternativa che possa rappresentare una terza via, attraverso la quale viene resa possibile la coesistenza dei diversi universi culturali.

I figli di queste famiglie miste, spesso, nemmeno si chiedono se stanno seguendo più la cultura materna o quella paterna. Forse, proprio per questo, diventano depositari di una insperata identità multiculturale.


Se tutto va bene, mi verrebbe da dire, loro sono la terza via.

Sì, loro sono la terza via.


Volevo chiederti una cosa Alberto, perché forse questa cosa non l’abbiamo esplicitata o forse non l’abbiamo esplicitata abbastanza. Ascoltandoti mi sembra di capire che tu ti occupi di coppie miste in diversi ambiti. Parlavi prima di una intervista, delle terapie di coppia, di studi e docenze che fai all'università, dei gruppi di auto mutuo aiuto. Insomma, ci sono diverse realtà con le quali ti confronti. A livello di intervento, mi chiedevo, che tipo di domanda ti viene fatta quando una coppia arriva in terapia e come si collega la domanda di intervento ai motivi per cui uno sceglie di stare in una coppia mista? Mi spiego meglio. Sì, possiamo pensare, e ne parlo a titolo molto personale, che girando per il mondo si incontri la propria seconda metà, in spagnolo si dice “la propria mezza arancia”. Forse, però, ci sono anche dei motivi per cui ricerco una “mezza arancia” siciliana invece che di Valencia, non solo perché è bella e c’è stata una intesa. Insomma, mi chiedo, il motivo per cui scelgo di stare in una coppia mista c’entra anche con le questioni che vengono riportate nelle domande che ti vengono poste quando ti richiedono un intervento di terapia?

A volte sì, a volte no. Per partire da un esempio, alcune persone mi dicono che sono state sempre e solo in coppie miste e lì forse vale la pena di considerare la possibilità di riconoscere alcune dinamiche che hanno a che vedere con il sottotesto, da esplorare, e che nutre la rappresentazione sociale dello straniero. Se sto insieme solo ed esclusivamente ad uomini dell’Africa subsahariana perché hanno una concezione di famiglia che a me piace e che io non trovo più negli uomini italiani, probabilmente, riconosco un valore alla famiglia di un certo tipo. Lo stesso implicito può essere declinato sulla religione o sulla provenienza. In questi casi c’è una sorta di scelta di senso se il partner italiano sceglie di stare in coppia mista. Come se, in qualche modo, si sentisse smarrito nel proprio gruppo di riferimento e trovasse negli altri gruppi dei valori a cui si connette e con cui sente una risonanza particolare. Poi, ovviamente, è necessario fare dei distinguo perché è possibile che questa risonanza sia più o meno oggettiva, reificata, può stare solo nella mente della persona, e così via. “Sto con i senegalesi perché loro sono così” è un discorso che regge fino a un certo punto per ovvie ragioni, è un discorso che parla di una omogeneizzazione che spesso semplifica in modo troppo duro la realtà. In altre situazioni, diverse da quelle di cui ho appena parlato, non c’è una scelta mirata e perseguita con consapevolezza. È avvenuto che due persone si siano innamorate e gli aspetti culturali, religiosi, etnici, c’entrino ben poco. Quando tu parli di domande, quello è un punto fondamentale perché parlare di coppie miste dal mio punto di vista può anche non avere affatto senso. Quando parliamo di problematiche di coppia, parliamo sempre di problematiche quali incomprensioni relazionali e comunicative, rapporti con le famiglie di origine, educazione dei figli, eccetera. È interessante, però, che la domanda che una coppia mista porta al terapeuta, a un terapeuta che si occupa di interventi in setting transculturali, venga spesso declinata in termini interculturali. In questi casi, la coppia riporta spesso le proprie problematiche definendo la situazione nei termini di una incomprensione che ha origine nel fatto che il partner sia di cultura X, troppo religioso, africano, eccetera. Sono quindi i due partner a rappresentare il problema in termini interculturali e, a volte, questo può generare una difficoltà: se le differenze vengono reificate in termini culturali, noi abbiamo davanti un’altra volta uno spettro che è quello della cultura intesa come entità granitica, uno scoglio insormontabile rispetto ai problemi vissuti dalla coppia perché lui, se lui è di cultura musulmana, mandinka o senegalese, è così e basta. Come è possibile superare questo problema? In questi casi è molto importante deculturalizzare il problema. Perché se Mohamed è musulmano, magari è comunque portatore di una sua interpretazione della religione, soggettiva. Questo è un passaggio obbligato per affrontare il problema. Se intendiamo la persona come il rappresentante fedele di una cultura, stiamo sbagliando e, soprattutto, non ci è utile.

Mi veniva da pensare a una cosa che succede a me ed ha a che fare con questo elemento granitico di cui parli, inamovibile, impossibile da scalfire in qualche modo. Per esempio, considerando che sono in una coppia mista italo-spagnola, mi rendo conto che le difficoltà sono veramente minori perché il contrasto culturale è ridotto tra spagnoli e italiani. Anzi, è spesso diffusa l’idea che noi spagnoli siamo molto simili agli italiani e, a volte, anche nell'idea che siamo molto simili, neghiamo delle differenze che invece ci sono. Il tema che vorrei introdurre è legato a degli aspetti del linguaggio. Ad esempio, quando non ci capiamo, sia con il mio partner, sia con la mia famiglia di origine, il fatto di non capirci viene ricondotto ad un elemento di traduzione. Quindi, se io ho una incomprensione con il mio partner, lui mi dice: “Perché hai fatto una traduzione dallo spagnolo che non ha senso nell'italiano”. E quindi poi posso dire: “Non so come si dice in italiano, in spagnolo te lo direi così”. Quindi è come se restasse un’area di intraducibilità che, in qualche senso, è come se volesse nascondere il conflitto. Così come con la mia famiglia di origine, quando faccio un commento. Spesso, soprattutto negli ultimi tempi, mi viene detto: “Però non ti si capisce quando parli perché stai diventando troppo italiana”. Quindi c’è un po’ questo nascondere, un voler placare il conflitto velocemente riconducendolo ad un problema prettamente di linguaggio.

Sì, in effetti spesso si tende anche a semplificare in questo modo. Però è vero anche che, sapendo che esiste questo tipo di gap, si è più pronti, si è più attivi, si sa che ci possono essere queste difficoltà. Direi, meglio, che si è più proattivi rispetto alle coppie tradizionali e, quindi, c’è un aspetto anche di risorsa nelle coppie miste. Poi, bisognerebbe dire che italiani e spagnoli siano molto simili; però, se vedi, le differenze non sono date a priori, sono co-costruite. Per cui ci possono essere coppie italo-spagnole che quando entrano in crisi insistono molto sulle differenze. Se noi vogliamo parlare di differenze, ingigantirle, usarle a pretesto, lo possiamo fare anche con Catania-Palermo, con Milano e provincia di Milano. È un processo, non è un contenuto. Sono state fatte delle ricerche in tal senso da un vertice sistemico-relazionale. Quando parliamo di differenze, di che cosa parliamo? A volte le iper-utilizziamo; altre, le annulliamo in qualche modo.


Mi chiedo se ci sia un agito da qualche parte nella storia della coppia quando un uomo e una donna arrivano con una domanda di intervento che reifica gli aspetti culturali. Dire che il problema è la cultura è come se la stessi scoprendo e vivendo in quel momento per la prima volta. La diversità, la curiosità di questa diversità, nel momento della crisi, diventa il pre-testo, ciò che univa adesso divide. Quella che poteva essere una risorsa diventa un problema. Là mi sembra che la coppia mista sparisca.

Totalmente d’accordo, è un movimento abbastanza tipico. Perché impostare il problema in termini interculturali quando si affronta una difficoltà o un conflitto, semplifica; ha il vantaggio di semplificare la realtà, di darti una spiegazione. Però nei fatti non aiuta, anzi.


Io ho fatto un tirocinio con Maurizio Andolfi. La mia sensazione nel seguire coppie miste in crisi era che la peculiarità di ogni coppia spariva nella crisi. Perché il problema non si ascriveva nella cultura. O meglio, se anche c’era un problema di tipo culturale, esso era stato negato nella scelta di essere coppia mista. Di fatto, anche dietro ad un innamoramento che si dichiara non influenzato da aspetti culturali, noi comunque facciamo sempre parte di un gruppo.

A volte una rottura è un modo per sfidare il conformismo in famiglia. Sto pensando a una coppia in crisi, veramente una crisi nera. Lei, famiglia di origine ebrea. Non praticanti, però ci tenevano a ricordare questa appartenenza religiosa. Lui, burkinabé, musulmano. Nel descrivermi la sua famiglia, la donna mi disse: “Anche mia sorella sta insieme a un uomo. Anche lui non è ebreo. Lui è italiano, ma non è ebreo”. Io non glielo avevo nemmeno chiesto, ma lei ci teneva a sottolineare questa cosa.


Quello che mi pare che stiamo dicendo è che, a prescindere dal fatto di parlare di religione o di altri aspetti che fanno parte di ciò che noi definiamo cultura, tanto più l’individuo è capace di relazionarsi in maniera dialettica a questi aspetti, tanto più probabilmente è anche capace di relazionarsi con tutto quello che lo straniero rappresenta. Sono forse le coppie in grado di rapportarsi con l’estraneità ad avere meno problemi. Forse, quelle in cui c’è stata una riflessione su “chi sono io”, “chi sono io in quanto persona nata in questo paese, immigrata, che crede o non crede”. Probabilmente, è in questo legame non costrittivo con le proprie radici che c’è uno spazio di benessere. Questo forse vale per tutti, non solo per le coppie miste, perché penso che molti dei problemi che abbiamo rievocato all'inizio rientrino nell'area dello svincolo, quindi richiamano fortemente il legame che l’individuo ha con la famiglia di origine e quanto sia un adulto che decide di unirsi in coppia ad una persona sentendosi libero da quelli che potrebbero essere i condizionamenti, gli intenzionamenti, i legami familiari. Sicuramente l’Italia, con un po’ di ritardo rispetto ad altri paesi, sta cominciando ad interrogarsi su queste questioni, un processo che magari renderà più semplice la vita ai bambini che nascono in questi anni da coppie miste perché, in qualche modo, adesso abbiamo più abitudine a fare i conti con queste cose.

Guarda Ganda, mi fai pensare ad un incontro che ho fatto con alcuni studenti di una scuola superiore di Catania parlando di coppie miste. Vedevo negli occhi di questi ragazzi una domanda del tipo: “E quindi? Lo sappiamo”. C’erano figli di coppie miste, italiani di seconda generazione… Questo cambiamento sta avvenendo già e in qualche modo quei ragazzi mi dicevano che loro questo cambiamento lo stanno vedendo già, lo conoscono. Io ho molta speranza nel fatto che i figli delle coppie miste possano già rappresentare, come diceva Carlota, una terza via incarnata. E sappiano già che cosa fare con tutti questi aspetti così difficili.


Mi verrebbe da aggiungere. “Se va bene”.


In effetti ci sono diverse possibilità che non vada bene, per diversi motivi. Negli ultimi anni chi si occupa di psichiatria transculturale ha cominciato a parlare della migrazione come risorsa, come bacino di possibilità. Questo approccio che, in linea con l’evoluzione della nostra disciplina, ha cominciato a parlare dei punti di vulnerabilità ma anche delle risorse, mi sembra evocare questa opzione della terza via rappresentata dai bambini, soprattutto da quelli che crescono in un ambiente dove le culture dialogano e, mi verrebbe da dire, dove la traduzione non è un tradimento. Questi bambini sicuramente possono avere una marcia in più, se ce la possono fare, se va bene.


Volevo ritornare alla questione dell’intervento e mi chiedevo che tipi di coppie, diciamo così, trovano una via nei gruppi di auto-mutuo aiuto. Facevo una fantasia rispetto a un certo bisogno di supporto, come se ci fosse il bisogno di essere supportati nel processo di tradimento delle proprie origini. Ma che tipo di fantasie hanno le persone che poi, invece, fanno una richiesta di terapia? Perché una coppia mista si rivolge a un terapeuta transculturale per problemi di coppia? Qual è l’idea che hanno in testa dell’intervento che poi svolgeranno con te? Che tipo di soluzione si cerca quando ci si rivolge a uno che si occupa di coppie miste invece che di coppie tout court?

Un po’ è quello che si diceva prima: loro autodefiniscono il problema nei termini dell’essere una coppia mista. Nella maggior parte dei casi non lo è. A volte, sì. Mi viene in mente una coppia che mi chiamò perché volevano avere un bambino. Lei cattolica praticante molto molto fedele; lui ebreo praticante molto molto fedele. Non sapevano che tipo di religione trasmettere al bambino. Erano in impasse per questo.


In questi casi mi sembra quasi che ti chiedano di stabilirla tu la terza via, forse perché loro non si percepiscono in grado. La terza via implica un allontanamento di ognuno dalle proprie origini per vedere cosa viene fuori da me e da te e che non c’entra né con me, né con te.

Però vedi Carlota, in questi casi è fondamentale capire perché è così importante restare fedeli a certe intenzioni. Talvolta dietro le questioni di fedeltà alla religione o alla cultura, c’è la questione della fedeltà alla famiglia e quindi l’incapacità di negoziare significati in maniera flessibile con le proprie origini. E quindi, è un problema religioso o di interconnessione con la propria famiglia? Per cui, se sostituisci il discorso religioso ad altre questioni come “mio figlio deve essere avvocato perché mio padre e mio nonno lo erano”, la dinamica resta la stessa perché il nocciolo è quello di mantenere una certa coerenza intergenerazionale. Lì io mi domando se è un discorso interreligioso o interfamiliare o entrambi. Lì vediamo che parlare di questioni interreligiose è più un espediente che mi serve per connettermi alla coppia, per costruire insieme una narrazione che sappia generare nuovi significati. Nei fatti, non c’è un discorso interreligioso e basta. È più che altro un discorso di come la coppia sta negoziando la propria vita e l’origine della propria famiglia rispetto ai mandati familiari che, spesso, sono molto rigidi. E poi il mandato familiare può essere interculturale, interreligioso o comprendere altri aspetti che non hanno a che fare con la cultura e la religione. Tenere a mente queste questioni è fondamentale, perché altrimenti il rischio è di fare confusione e credere che sia tutto misto. È sempre un’opera di decostruzione dove ha senso parlare di misto soprattutto laddove dobbiamo decostruire l’idea di mixité attraverso la quale la coppia si presenta. Alla base ci sono sempre dinamiche umane, familiari, comunitarie, presentate secondo un modello implicativo in termini interculturali.


Essendomi occupato di miti familiari nelle coppie miste mi sono reso conto che in effetti questo è l’elemento centrale. Il tema del mandato familiare era sempre centrale e mi sembra che venisse negata la questione della lealtà al mandato utilizzando la cultura come feticcio. In quel caso era un continuo staccarsi dagli elementi culturali per sollecitare una riflessione sul fatto che i problemi fossero di natura differente. Il problema era la negazione di altre questioni che si erano tradotte poi in un agito consistente nella scelta di un partner straniero. Il mandato era un po’ il leitmotiv di tutte le coppie miste che ho visto ed anche nelle coppie non miste era centrale. I mandati erano basati su vincoli di lealtà così forti che erano molto difficili da sciogliere.

Là vedi proprio che il discorso non ha a che fare con l’idea di misto ma con la capacità di negoziare questi mandati. Poi, però, penso non sia nemmeno utile negare che le coppie miste presentino dinamiche e problemi peculiari. Ovviamente affrontano sfide specifiche, spesso legate alla quotidianità e ad elementi concreti; le questioni, cioè, non sono riconducibili a differenze dettate a priori. Secondo me gli psicologi, e non solo loro, dovrebbero avere una formazione approfondita sui concetti di cultura, etnia, religione, differenze, pregiudizio. Nella clinica sono anche sottovalutati alcuni temi di psicologia sociale legati a pregiudizio e discriminazione. È poi fondamentale fare un esercizio di riflessività per essere consapevoli dei propri filtri cognitivi e delle proprie categorie interpretative. Fondamentalmente anche il processo etnografico non può riguardare esclusivamente gli antropologi. Sostanzialmente la capacità di osservazione, di osservazione partecipante e posizionamento rispetto all'altro, sono tutte questioni su cui dobbiamo formarci e ritornare sempre per evitare di cadere in bias di lettura della realtà.


Io penso che lo dobbiamo fare come psicologi in generale. Magari è imprescindibile per chi si occupa di multiculturalità. Ma sicuramente pensare a quali sono le proprie premesse, il proprio posizionamento, come si sta all'interno delle relazioni, il modo in cui si guarda la realtà… Sono azioni imprescindibili per qualunque psicologo. Così come vedo nella questione della negoziazione un tema importante e trasversale. Mi viene anche da fare una connessione con lo scopo del nostro Blog che è quello di cercare di incontrare, creando delle occasioni, l’estraneo. È di questo che stiamo parlando oggi. Sicuramente abbiamo modelli di intervento diversi, ma ci troviamo su questo, sul fatto che riconosciamo il valore della “terza via”: laddove possiamo vedere delle opportunità, è quello il momento in cui riusciamo a riconoscere che l’altro non è quello che ci siamo detti che è, ma qualcosa che va scoperto, conosciuto, “negoziato”, in un certo senso.


Sono d’accordo con Alberto quando fa un invito a riflettere sul proprio posizionamento. Per chi lavora con persone di cultura diversa questo è fondamentale, altrimenti il rischio è quello di agire il proprio etnocentrismo, soprattutto se si lavora con chi viene da mondi così tanto diversi dal nostro. Mi piace il rimando che Carlota fa all'estraneo, un po’ una nostra fissazione, Alberto. Mi piace perché l’incontro con l’estraneità - ovviamente più facile per alcuni, più difficile per altri, più interessante per alcuni, meno interessante per altri - è sempre un incontro foriero di tante cose. Intanto ci offre delle possibilità di capire meglio chi siamo e, poi, porta con sé tutta una serie di consapevolezze sulle nostre modalità di relazione con l’altro. Secondo me, soprattutto questo è importante. La possibilità che l’altro ti dà di conoscerti e anche di ri-conoscerti. Da questo punto di vista, ovviamente, si devono fare dei distinguo, capire la storia della persona, perché sceglie solo partner africani oppure si innamora di persone che sono accomunate tra loro da altri aspetti non culturali. Volendo generalizzare, però, dal punto di vista dell’incontro con l’altro le coppie miste sono veramente privilegiate. Mi viene da fare questa affermazioni perché l’estraneo è sempre lì accanto a te. Se mi consentite una boutade, l’estraneo è sempre nel tuo letto. C’è pure da dire che queste coppie, spesso, sperimenteranno anche tante paure, considerando che l’incontro con l’estraneo non è mai rassicurante, anche e soprattutto perché rischia di farci vedere delle cose “estranee e straniere” che sono dentro di noi e che forse non abbiamo visto prima.


In merito a questo, mentre prima parlava Carlota e diceva “in Spagna noi diciamo così”, mi veniva da pensare alla comprensibilità, come se l’altro dovesse essere sempre necessariamente comprensibile. E mi veniva in mente anche una citazione di Recalcati da “Lessico amoroso”, trasmissione in cui si faceva riferimento al segreto irriducibile dell’altro. E qui andiamo oltre il concetto di cultura, l’estraneo è sempre nel tuo letto al di là della cultura. Perché la questione è che io non potrò comprendere l’altro che avrà sempre un suo segreto, un luogo non conosciuto. La questione è dirsi che io dell’altro non conosco sempre tutto. Dobbiamo o possiamo sempre essere comprensibili?


La mia risposta sarebbe un bel no. E sono anche d’accordo sul fatto che l’estraneo è sempre nel tuo letto, a prescindere dalla lingua che parla, dal colore della pelle, dalla sua religione. E con questo, abbiamo scoraggiato tutti ad entrare in una relazione di coppia.

Sai cosa penso? Le coppie miste, dove c’è un estraneo che è evidentemente tale, ci rende immediatamente chiaro che non possiamo sfuggire dall'incontro, evitare di incontrarci. Ci illudiamo che il nostro concittadino sia più semplice da comprendere. Ma poi vediamo che ci sono divorzi e separazioni alle stelle anche tra italiani. E allora ci rendiamo conto che il processo, lo sforzo di interconnetterci all'altro in modo autentico, mettendoci in gioco, soffrendo, accettando le vulnerabilità nostre e altrui, è un processo che avviene sempre e comunque, con qualsiasi persona. Solo che ci sembra che quando incontriamo un senegalese, quella “roba” è più complessa. Ma nei fatti è una cosa che dobbiamo imparare a fare con chiunque.


Mi viene da sorridere Alberto perché all'inizio ho mostrato alle colleghe una tela che mi sono fatto fare da un artista a cui ho chiesto di rappresentarmi qualcosa che avesse a che fare con l’incontro. E lui mi ha disegnato due trapezisti, tra l’altro uno rosso e uno nero, quello nero è colui che accoglie l’altro, quello rosso è in volo. È interessante che il trapezista nero ha i tratti esterni rossi e il rosso ha i tratti esterni neri. E l’artista ha raffigurato i due trapezisti che vanno uno incontro all'altro in una situazione di pericolo in cui incontrarsi presuppone un atto di fiducia.

Ma sì, anche perché poi ottieni la cosa più bella, l’unione. Quando senti che c’è unione completa ed autentica, abbandono totale nell'altro che è altro da te. E quella è l’esperienza dell’amore.


L’incomprensibile rimane da una parte, in un angolo, con la consapevolezza che la traduzione di un testo non sarà mai uguale a quello che dice l’originale. Però permette di capirsi, pur sapendo che ci sono delle cose che resteranno lì in quell'angolo. C’è sempre una differenza irriducibile, ma ciò non vuol dire che non ci si possa incontrare su di un ponte o, semmai, costruire dei ponti insieme. Mi sembra sempre la via più salutare.


Intervista ad Alberto Mascena

a cura di Gandolfa Cascio, Michele Gifuni e Carlota Zorrilla Ruiz


Riferimenti bibliografici

Bronfenbrenner, U. (1979). The ecology of human development. Cambridge: Harvard University Press.

Bateson, G. (1997). Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi.

Canguilhem, G. (1998). Il normale e il patologico. Torino: Einaudi.

Watzlawick, P. (1986). Istruzioni per rendersi infelici. Milano: Feltrinelli.


Siti consigliati

bottom of page