top of page

Tra paure e possibilità: appunti dalla pandemia per una psicologia opportunifera

Aggiornamento: 27 set 2020



Ciò che state per leggere è il tentativo di mettere per iscritto la nostra conversazione con Paride Braibanti*, Giovanni Guerra** e Angelo Pennella***.

Come mai un caffè con loro?

La risposta a questa domanda ha a che fare con paludi, energy drinks e moschettieri. Sostanzialmente, sono stati tre docenti che hanno avuto un ruolo importante nel nostro processo di formazione, un percorso che ha richiesto importanti “bonifiche”, un certo impegno e un approccio audace, capace di spingerci “oltre”.

Nonostante abbiamo cominciato a prepararlo nel mese di maggio del 2020, è un caffè che arriva alle porte delle vacanze e lancia uno sguardo a un nuovo periodo di incertezza sulla pandemia e sulle peculiarità che il suo tempo sospeso ci sta facendo conoscere. Ma cosa sta succedendo nei primi giorni di questa stagione autunnale? Dobbiamo prepararci a una nuova fase di lockdown? Avere già attraversato una prima ondata ci renderà maggiormente capaci di fronteggiare le difficoltà di convivenza con il virus? Il contributo degli psicologi e della psicologia sarà tale da promuovere in noi tutti risposte maggiormente funzionali a livello individuale e comunitario?

Come oramai siamo abituati a fare, l’incontro è stato realizzato online con un obiettivo e una premessa metodologica di cui adesso vi diremo. La finalità era quella di dialogare intorno al tema della pandemia; la premessa metodologica era incentrata sull’inedito, sulla possibilità di “andare a zonzo” insieme provando a costruire nuove narrazioni in una conversazione in gruppo.

Conversazione viene dal latino cum, insieme, e versare, volgersi o girare spesso. Immediatamente, l’etimologia richiama una dimensione collettiva in cui - insieme - si guarda verso qualcosa e, allo stesso tempo, si gira intorno ad elementi di provenienza differente, si cambia più volte direzione seguendo il flusso dei pensieri. Le immagini che questa parola ha evocato in noi nel corso della scrittura di questo testo sono state numerose: abbiamo pensato al mescolare gli ingredienti mentre si cucina, con un piatto finito che è qualcosa di più della somma delle parti, presentandosi come il risultato del mescolare e ri-mescolare; abbiamo immaginato il perdersi, l’andare a zonzo, di una camminata che ha una meta da raggiungere, ma non attraverso un percorso definito a priori; abbiamo visualizzato lo sguardo che circola in un gruppo tra le alternanze che costruiscono il dialogo.

A partire da questa premessa che descrive uno sfondo pieno di incertezza nella cornice della sicurezza di essere gruppo, sono emersi tre assi discorsivi relativi ad alcune questioni evocate dal tema della pandemia: 1) la pandemia come fallimento collusivo (Pennella, 2020; Carli e Paniccia, 2003); 2) la delusione rispetto alla possibilità mancata di una nuova rivoluzione, non disgiunta da quella per una psicologia opportunista e che collude con il senso comune; 3) la proposta per la fondazione di una fucina dell’immaginario.

Rispetto al primo asse, è stato rilevato come la pandemia abbia colpito il cuore dell’assetto narcisistico caratteristico della nostra società: al di là dell’onnipotenza maniacale che caratterizza il nostro tempo, il virus ci ha riconsegnato le nostre vulnerabilità e la nostra impotenza. Una dinamica similare ha coinvolto anche la rappresentazione della medicina: il sistema sanitario ha riscoperto i propri limiti e si è rivelato incapace di mantenere la promessa della salvezza ad ogni costo, nonostante l’elevato livello di tecnicalità raggiunto dal sapere medico.

Spostandoci sul secondo asse, nella nostra conversazione è emerso un certo senso di delusione nei confronti di un cambiamento atteso, ma mai arrivato, come effetto del lockdown e dei primi mesi di pandemia. In merito, è stata richiamata l’aspettativa di un potenziale nuovo ‘68, evocando l’idea di una rivoluzione che, almeno ad oggi, non sembra essere avvenuta. Un analogo sentimento di delusione, del resto, è stato riferito anche ad una certa psicologia che si è mossa molto velocemente e in maniera opportunistica, seppure scarsamente guidata - dal nostro punto di vista - da un pensiero incentrato sullo sviluppo delle persone, dei gruppi e delle comunità.

Il leit motif che ha attraversato tutta la conversazione è stato rappresentato dal confronto sulle metafore utilizzate per descrivere la situazione di pandemia, un elemento che, probabilmente, ci ha permesso di co-costruire una narrazione aperta all’inedito.




Sull’enciclopedia Treccani si legge che la metafora “è una figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo aver mentalmente associato due realtà differenti sulla base di un particolare sentito come identico, si sostituisce la denominazione dell’una con quella dell’altra”. In tal senso, durante la pandemia, è stata spesso riproposta la metafora della guerra, associata a quella del medico eroe. In campo medico, come sottolineato da A. Pennella, la metafora della guerra è strutturale: non è certo un caso che il Time, già nel 1931, dedicasse una copertina alla "guerra al cancro", espressione poi reiterata da Nixon nel 1971 in occasione del lancio di una prima campagna a favore di un massiccio investimento nella ricerca su questa patologia.

Per certi versi, insomma, non sorprende il riferimento alla guerra. È proprio di una prospettiva fallocentrica della medicina (Fornari, 1976) simbolizzare la malattia come nemico esterno contro il quale il medico deve lottare, concezione che si contrappone a quella onfalocentrica, maggiormente incentrata sul prendersi cura e sul preservare la salute del paziente.

In una situazione di emergenza sanitaria in cui si lotta contro un nemico invisibile, insidioso e invasivo, poi, è comprensibile anche il richiamo al medico-eroe, figura solitaria associata alle poche possibilità di salvezza in uno scenario segnato dalla diffusione di una malattia che ha causato un numero elevato di decessi in un arco temporale tutto sommato limitato. Se è stato quindi quasi vitale evocare l’immagine di un eroe che salva, però, è forse il caso di chiedersi se l’utilizzo di questa metafora non abbia trasformato tutte le vittime potenziali in non-eroi che, in quanto tali, non riconoscendosi grandi responsabilità nel contrasto della malattia, hanno potuto essere meno attivi nella battaglia contro il virus. In questo scenario, al medico-eroe è stato chiesto di essere coraggioso, con la riscoperta di una dimensione professionale forse maggiormente valorizzata nel passato, quando alla medicina si chiedeva di curare le persone in una situazione di minore disponibilità di mezzi tecnici.



Si tratta di temi ulteriormente approfonditi da A. Pennella e da A. Ragonese in un recente articolo (Pennella e Ragonesi, 2020) che ha il merito di far riflettere su quanto sia stato più o meno funzionale il riferimento ad un universo simbolico di questo genere: la metafora della guerra è un ancoraggio immediato nelle situazioni in cui a dominare è l’angoscia di morte. In tal senso, se è vero che la paura inibisce l’esplorazione, si può cogliere il valore conservativo delle metafore che ci permettono di ricondurre al noto ciò che è ignoto.

Quando è forte la paura, però, è possibile fare ricorso a metafore più originali e articolate?

Forse no! Perché quando la paura travalica i confini della sua funzione adattiva diventa angoscia, lasciando poco spazio alle funzioni del pensiero. Per cui diventa improbabile esplorare l’ignoto e creare nuove metafore.

In “Semiosi e filosofia del linguaggio” Umberto Eco (1984), recuperando la concettualizzazione aristotelica della metafora nella sua funzione conoscitiva, sostiene che esiste una distinzione fra la metafora «povera, “chiusa”, poco conoscitiva» (p.189), ovvero che pone in evidenza quanto già si conosce, e la metafora «“buona” o “poetica” o “difficile” o “aperta”» (p.186).

La metafora “chiusa” sembra proprio una tipica produzione di un intelletto che, annebbiato dalla paura, cerca rifugio in categorie note. La metafora “aperta” invece «ci fa vedere le cose all’opposto di quanto si credeva, diventa evidente che si è imparato, e sembra che la nostra mente dice: “Così era, e mi sbagliavo”» (ibidem, p.164).

In tal senso la metafora mette in luce il rapporto inedito tra due cose ampliando il processo della conoscenza. Per dirla con Eco (2007), la metafora «impone una riorganizzazione del nostro sapere e delle nostre opinioni» (p. 70).

In un certo senso, potremmo dire che l’esperienza della metafora si presenta come un’epifania per l’intelletto nel processo di conoscenza. Ma in che modo è possibile accedere a questo tipo di esperienza?

La possibilità di trovare una risposta a questa domanda compare come uno spiraglio nella nostra conversazione. Ricordando Francesco Corrao (1985) che intende il gruppo come generatore di metafore, è G. Guerra a proporre l’idea di un laboratorio per l’immaginario, descrivendo lo psicologo come un facilitatore di processi creativi. È a questo punto che si presenta l’immagine carica di generatività della fucina dell’immaginario, terzo asse discorsivo di questo caffè.

Ma quale può essere la funzione di una fucina dell’immaginario?

Forse la risposta a questa domanda sta nel processo che abbiamo provato a raccontarvi, difficile da condividere perché si tratta di un percorso in divenire.

Attraverso un’esperienza come quella di Un caffè con Igea, e anche come quella del caffè che si sta raccontando, abbiamo sperimentato la possibilità di creare contesti capaci di produrre nuove metafore, di facilitare l’emergere dell’immaginazione generatrice di nuovi significati. In un momento di forte incertezza come quella generata dalla pandemia, l’incontro “amico” della conversazione attorno ad un caffè ha reso possibile riscoprire una psicologia che rifiuta l’opportunismo provando ad essere opportunifera.

A partire dalla delusione per una psicologia che sembra essere stata capace solo di dare risposte vecchie a problemi nuovi, abbiamo condiviso e compreso il bisogno di promuovere una professione diversa, capace di riposizionarsi e di produrre un cambiamento attraverso la facilitazione di processi di incontro che valorizzano le risorse dei gruppi in quanto contenitori e trasformatori di emozioni altrimenti paralizzanti o che spingono ad agire. Simili contesti si costruiscono intorno alla presenza di una funzione psicologica che facilita la trasformazione di elementi vissuti come “dati” in opportunità da cogliere.



Detto molto semplicemente, ci siamo accorti di aver riflettuto - ancora una volta - su una funzione psicologica che ci immaginiamo come promotrice di un movimento creativo e generativo, mentre noi stessi, nell’incontro e attraverso di esso, creavamo un contesto per co-costruire nuove possibilità di pensare e sentire.

A partire dalla delusione per una psicologia che sembra essere stata capace solo di dare risposte vecchie a problemi nuovi, abbiamo condiviso e compreso il bisogno di promuovere una professione diversa, capace di riposizionarsi e di produrre un cambiamento attraverso la facilitazione di processi di incontro che valorizzano le risorse dei gruppi in quanto contenitori e trasformatori di emozioni altrimenti paralizzanti o che spingono ad agire. Simili contesti si costruiscono intorno alla presenza di una funzione psicologica che facilita la trasformazione di elementi vissuti come “dati” in opportunità da cogliere.




Chiudiamo il nostro incontro con una domanda sospesa, una domanda che lascia aperte le strade a futuri “caffè”: come si fa ad essere opportuniferi? Ed è possibile provare a pensare a questa pandemia attraverso nuove metafore?



Bibliografia:

Carli, R., & Paniccia, R. M. (2003). Analisi della domanda: Teoria e tecnica dell'intervento in psicologia clinica. Bologna: Il mulino.

Corrao, F. (1985). Funzione analitica del piccolo gruppo. In Orme, vol. II. Milano: Raffaello Cortina, 1998.

Eco, U. (1984). Semiotica e filosofia del linguaggio. Torino: Einaudi.

Eco, U. (2007). Dall’albero al labirinto. Milano: Bompiani.

Fornari, F. (1976). Simbolo e codice. Dal processo psicoanalitico all’analisi istituzionale. Milano: Feltrinelli.

Pennella, A. R. & Ragonese, A. (2020). La Pandemia da SARS-COV-2 nell’era del narcisismo: Cosa minaccia “realmente” il coronavirus? Rivista di Psicologia Clinica, 15 (1): 5-16.

Pennella, A. R. & Ragonese, A. (2020). Health professionals and Covid-19 pandemic: Heroes in a new war? Journal of Health and Social Sciences, 5 (2): 54-59.


* Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute di Università “Sapienza” di Roma ha insegnato Psicologia della salute e dell’inclusione sociale presso l’Università di Bergamo

** Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute di Università “Sapienza” di Roma è stato professore associato di Psicologia generale presso l’Università degli Studi di Firenze

*** Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute di Università “Sapienza” di Roma


A cura di Gandolfa Cascio, Michele Gifuni, Sara Maugeri e Carlota Zorrilla Ruiz

bottom of page