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Quando siamo in DaD "questa stanza non ha più pareti”



È trascorso un anno dall’inizio della pandemia da SARS-Cov-19, un anno in cui l’Istruzione nei suoi vari ordini e gradi appare una delle istituzioni più colpite dalle conseguenze di questo virus.

La Didattica a Distanza (DaD) è stato sicuramente uno dei nodi più controversi del sistema scolastico e universitario, in particolare durante la gestione dell’emergenza nella prima ondata della pandemia. Con la ripresa dell’anno scolastico 2020/2021, in modo frammentario, si è potuto osservare un parziale ritorno alla didattica in presenza per gli alunni della scuola materna, primaria e secondaria di primo e secondo grado, con i dovuti distinguo per le diverse regioni italiane dati dall’incidenza dei contagi in specifici territori.

La situazione ha assunto caratteristiche diverse in ambito universitario per le differenti conformazioni che la didattica può assumere in tale contesto, in cui nella maggior parte dei casi si è optato per la DaD come canale formativo privilegiato, al fine di mitigare la diffusione dei contagi. In questi ultimi mesi, anche se è passato un anno dal fortuito inizio della DaD alcune questioni fanno ancora riflettere.

Malgrado si parlasse di “scuola 2.0” già da alcuni anni, si è potuto osservare come la scuola e l’università fossero del tutto impreparate ad affrontare un fenomeno di tale portata. Si è cercato di correre ai ripari, talvolta con scarsi risultati, fornendo strumenti adeguati alle scuole e alle università per digitalizzare alla meno peggio la didattica. Nella maggior parte dei casi, il risultato si è sostanziato in una riproduzione online della didattica in presenza, nella collusiva convinzione che fosse questa la cosa giusta da fare.

In termini psicologici potremmo dire che si è assistito ad una negazione di massa in cui tutti sanno, ma fanno finta di non sapere che questo modello di didattica risulta noioso, spersonalizzante e poco formativo sia in termini più strettamente didattici, che nello sviluppo delle capacità psicosociali di alunni e studenti. Un tale modello formativo oltre a non garantire un’adeguata formazione, induce i diversi attori della scena formativa a regredire verso modalità di trasmissione del sapere già viste. Una didattica che solo nella forma appare digitale, ma nella sostanza sembra rimasta immutata nel riproporre lo schema del modello in presenza. Malgrado le buone intenzioni, la situazione dopo un anno ci mostra un modello didattico che non solo non vede espresso il potenziale del mezzo digitale, ma lo reifica svuotandolo della sua portata innovativa.

A tal proposito, negli ultimi mesi, ha fatto molto riflettere la diffusione di un imbarazzante video, diventato virale nella rete e nel mondo dei social, fino ad alimentare accesi dibattiti nei talk televisivi. Mi riferisco alle furtive immagini nelle quali una studentessa universitaria, iscritta al sesto anno di medicina, durante un esame universitario online, fa andare su tutte furie il docente che la sta esaminando. Il motivo della furibonda reazione dell’esaminatore sarebbe da rintracciare nel fatto che la studentessa, durante la sua esposizione, abbia sostenuto, erroneamente, che il processo vitale della divisione cellulare potesse sussistere oltre la morte.

La registrazione del video in questione inizia con l’umiliante rimprovero del docente (non si sa di quale materia specifica), che, urlando in un rigoroso dialetto locale, inveisce contro l’esaminanda dichiarandola passibile di arresto per le sue assurde affermazioni sul fondamentale e noto processo biologico. Dal video, della durata di circa 2-3 minuti, si può dedurre che la giovane studentessa, abbia già sostenuto lo stesso esame con esito negativo in un appello precedente.

Dopo un primo momento di umiliazione, la studentessa, piangendo riferisce al docente di essere stanca delle sue “mortificazioni”. È a questo punto che compare sullo schermo la madre della ragazza esclamando “Scusate, io sono la madre e devo intervenire!”. Il docente con lo stesso tono alterato sottolinea la violazione di una regola di facoltà, secondo la quale la signora non avrebbe dovuto trovarsi in quella stanza, motivo per cui obbliga, quasi in modo punitivo, la studentessa a ripetere l’esame in presenza ad un successivo appello. La madre della studentessa incurante dell’imbarazzo della figlia, che intanto si dimena provando a spingerla fuori dall’inquadratura della webcam, in modo insistente rientra nella scena difendendo la figlia a spada tratta, rispetto alle cattive maniere messe in campo dal docente che, a suo parere, non terrebbe di conto “l’esaurimento” della figlia. La studentessa, non sapendo più cosa fare, saluta il docente, dandogli appuntamento al prossimo appello ed oscura la webcam lasciando la connessione audio aperta. Nel mentre, la madre si qualifica come medico e imperterrita continua la sua disputa con il docente, nella quale i due si minacciano denuncia a vicenda. Proseguendo la signora esige il rispetto da parte del docente per la figlia, pretendendo che le faccia un’ulteriore domanda prima di chiudere l’esame. Il video si interrompe con la ridicolizzazione della richiesta da parte del docente.

Mentre osservavo questo video sono stato attraversato da emozioni contrastanti. Da psicologo mi sono interrogato su cosa fosse successo in questa situazione in cui l’inconscio è sembrato dominare incontrastato. In questo articolo non cercherò di dare seguito ad una presa di posizione come si è potuto osservare sui social o in modo più evidente in alcuni talk televisivi, ma proverò a riflettere ad alta voce, su alcune questioni contestuali, questioni su cui proverò a fare delle considerazioni aperte ad ulteriori riflessioni.

L’assenza di confini in questo breve stralcio video appare una questione centrale. Una studentessa al sesto ed ultimo anno di medicina sembra compiere un importane errore per il livello formativo raggiunto, ovvero spinge oltre il confine della vita il processo della divisione cellulare. Ma come mai una studentessa all’ultimo anno di medicina, che presumibilmente ha superato esami molto più difficili, compie un errore su un fondamento così consolidato nella teoria biomedica? L’unica possibile risposta ci viene dalla madre che cerca di giustificare l’errore della figlia a causa di un “esaurimento”, come a voler alludere al fatto che la ragazza fosse estenuata dalla circostanza specifica, ovvero l’esame con quel docente, eludendo tutta una serie di elementi di contesto che riprenderò in seguito.

Il docente di suo canto sembra perdere ogni controllo all’affermazione errata della studentessa, dando inizio ad una escalation offensiva nei confronti della ragazza. Si osserva, pertanto, il superamento di un altro confine: quello della funzione valutativa del docente, il quale abusando del ruolo prevarica la relazione.

Con l’irruzione della madre della studentessa sulla scena, che si appella come medico, è possibile osservare la rottura di più confini, il superamento dei quali determina un aumento della confusione. Più nello specifico, in questa parte del video si è potuto assistere alla rottura di un confine familiare, ovvero quello della relazione madre-figlia; un confine di una norma, attraverso la violazione di un regolamento universitario che vorrebbe la studentessa da sola dentro la stanza dalla quale si connette per sostenere l’esame; un confine relazionale con l’intromissione della madre nella diade docente-discente; un confine tra ruolo professionale e ruolo familiare mamma-medico. Se si vuole, un ultimo sconfinamento lo compie chi inizia a registrare per poi diffondere il video senza valutare le conseguenze di una tale azione.

Ad osservare questo video appare necessario avviare una riflessione a più livelli.

Iniziamo col dire che la divisione cellulare, come processo utile alla vita, sembra un’ottima metafora per spiegare la relazione madre-figlia, intesa come un unicum all’interno del quale è difficile differenziarsi riconoscendo la figlia e viceversa la madre, come altro da sé. Una studentessa al sesto anno di medicina dovrebbe essere capace di dirimere in qualche modo una frustrazione derivata da un conflitto espresso in una relazione professionale, ma la madre, vedendo lo stato di prostrazione della figlia non resiste e sente il “dovere” di intervenire. La donna prosegue incurante delle conseguenze che il suo intervento avrebbe generato nella relazione della figlia non solo con il docente, ma anche nei confronti dei colleghi che assistono da casa.

Ma dove avviene tutto questo? In che luogo?

A ben vedere in tre stanze diverse: la stanza dove si trova la studentessa, la stanza del docente e la stanza virtuale in cui avviene l’esame. L’esame, che normalmente avviene in un’aula universitaria, vede coinvolti i luoghi della vita privata sia del docente che della studentessa. Lo spazio virtuale in cui avviene lo scambio, per definizione un luogo non definito fisicamente, sembra far perdere agli attori in gioco il senso del confine che uno spazio fisco impone, confondendo vita pubblica e privata.

Lo spazio in cui si trova la ragazza, probabilmente, è una stanza della casa in cui vive con i suoi familiari. La famiglia in genere rappresenta il contesto in cui alcune dinamiche regressive tendono a manifestarsi con una certa frequenza. La scena a cui si assiste, infatti, richiama alla mente un’immagine primordiale della relazione madre-bambina, in cui il pianto della bambina rappresenta una fonte di angoscia per la madre, la quale, presa dalla frustrazione si sente “costretta” ad intervenire per ridurre lo stato di angoscia proprio e della figlia.

Se questo esame avesse avuto luogo in un’aula universitaria avrebbe assunto le stesse caratteristiche?

Non possiamo saperlo con certezza, ma presumibilmente avremmo assistito ad un epilogo diverso della storia.

Ma veniamo al docente. Dal video non si evince nulla di lui, se non lo stato di alterazione emotiva espresso dai toni e da un’inquadratura impercettibile sullo schermo. Non sappiamo da quale luogo si sia connesso. Abitazione privata? Sede universitaria? O altra location? Non è dato saperlo. Ciononostante, è interessante osservare come venga messo in campo, mediante un tono arrogante e autoritario, l’esercizio di un “potere”, supposto dal docente come legittimo nell’espletamento delle sue funzioni. Ma di quale funzione stiamo parlando? Tralasciando per un attimo il concetto di luogo, proviamo a riflettere su quale fosse la funzione esercitata in quel frangente dal docente. Trovandosi in sede d’esame, il professore avrebbe dovuto attenersi all’esercizio della sua funzione valutativa, eppure si è avuto modo di osservare il superamento di un altro confine mediante l’abuso di un potere dato dal ruolo. Il momento valutativo, infatti, è degenerato in una escalation giudicante fino alla beffarda condanna: “Meriteresti l’arresto!”.

Benché l’errore della discente sia importante e per certi versi inammissibile rispetto alla preparazione attesa, non è giustificabile la messa in atto di un abuso della professione. È probabile che il docente in questione utilizzasse gli stessi toni in un’aula universitaria, ma in rete appare ignaro del fatto che le sue urla potessero propagarsi nella casa della studentessa.

L’apice dell’assurdo di questa vicenda si tocca verso la fine quando il docente intima la denuncia esclamando alla madre della studentessa: “Signora mi denunci! Poi la denuncio anch’io perché lei là non può stare!”. Il docente con una certa veemenza impone alla signora un divieto di stare in una stanza della propria abitazione. Un altro aspetto non trascurabile dell’abuso di potere è rintracciabile nella decisione del docente che, incurante della situazione pandemica, obbliga la studentessa a ripetere l’esame, questa volta in presenza, vista la violazione di una regola. Il tutto come se la valutazione da remoto fosse un privilegio concesso e non una condizione precaria dettata dall’emergenza.

Altri episodi simili si sono verificati e sono diventati virali in rete, come quello di una docente che ha fatto bendare l’alunna durante una verifica orale per accertarsi che non stesse leggendo, lasciando sprofondare l’alunna in un profondo sconforto per la coercizione messa in atto.

Quanto narrato fin qui avviene in stanze virtuali in assenza di un pensiero sul divenire della relazione online. Vengono in mente, a tal proposito, i versi di una celebre canzone di Gino Paoli “Il cielo in una stanza” in cui si recita: “Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti...”. Potremmo riadattare le parole “Quando sei qui con me”, con la versione “quando siamo in DaD”. Questo per dire che nella stanza virtuale della DaD sembrano dissolversi i confini di quel luogo fisico rappresentati dalle pareti dell’aula universitaria o scolastica. Pur trovandoci di fronte ad un radicale mutamento del contesto didattico assistiamo all’alienante riproposizione di un modello in presenza dove viene ristabilito in modo forzoso un metodo formativo vetusto, che non tiene conto dell’assenza di limiti spaziali e dell’assenza dei corpi, corpi già troppo affaticati dalla stasi dell’essere seduti ad un banco, adesso costretti, in modo quasi sadico, davanti ad uno schermo per molte, troppe ore. Con questo modello di DaD la scuola ripropone una visione della persona nell’ottica del dualismo cartesiano, operando una scissione mente-corpo, aprendo così il varco a nuove forme di malessere che sempre più spesso arrivano all’attenzione degli psicologi.

A distanza di un anno, nelle istituzioni scolastiche, ancora sembra assente un pensiero su una didattica digitale sostenibile, capace di aprire nuove prospettive nella costruzione delle conoscenze. Il caso dell’esame di medicina qui discusso, potrebbe avviare una riflessione sulla fase valutativa del processo di apprendimento in questo frangente storico. Una valutazione siffatta riduce l’esame universitario a mero adempimento di un dovere, per superare il quale è noto che gli studenti ricorrono ai più disparati stratagemmi. Sarebbe interessante, per esempio, proporre la valutazione a piccoli gruppi di studenti, tenendo conto della creazione condivisa di un prodotto pertinente con la materia di esame, o pensare a nuove alternative di valutazione privilegiando la specificità del contesto.

Perché se è vero che la scissione mente-corpo genera malessere, tanto più la scissione individuo-contesto.

Michele Gifuni


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