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Forse, avere voglia di niente


È da poco trascorso un anno dalle prime misure che decretavano il lockdown generale per il nostro paese. Da quel momento è stato un susseguirsi di canti dal balcone, arcobaleni, speranze disilluse di poter uscire da questa emergenza sanitaria.

Da psicologa so qual è o quale possa essere il peso di certi anniversari. Forse per questo oggi mi sono molto interrogata su un sentimento di tristezza e stanchezza che provo da qualche giorno.

Mi sono chiesta, insomma, se fosse un effetto dell’avvicinarsi di una data che l’anno scorso ha chiaramente segnato un prima e un dopo nelle nostre traiettorie biografiche. Probabilmente segnerà un prima e un dopo fino a quando non ci sarà un post-pandemia degno di questo di nome. Fino a quando, cioè, non si tratterà solo di vivere una momentanea illusione che il virus se lo sia portato via il sole, il mare, la nostra insofferenza. O il negazionismo. O il complottismo. O qualsiasi altro prodotto della sofferenza del confrontarci con i nostri limiti, con il dolore, con la frustrazione, con la morte.

Mi viene in mente una foto da social che gira in questi giorni su Facebook. La Regina degli Scacchi gioca con la morte in una rivisitazione della celebre scena del film “Il settimo sigillo” di Bergman. Quando l’ho vista ho pensato che in quella partita la morte non avrebbe scampo e che servirebbe proprio lei, una fragilissima e umanissima regina degli scacchi.

Sto pensando al personaggio dell’omonima serie Netflix, una ragazza poco più che ventenne che impara a giocare a scacchi da bambina nel seminterrato dell’orfanotrofio dove trova accoglienza dopo il suicidio della madre, campionessa mondiale a dispetto dello strapotere maschile, di una dipendenza, della morte della sua seconda madre, quella adottiva. Umana, troppo umana, direi. Niente a che vedere con superpoteri e super-eroi, anche se capace di rialzarsi oltre l’autolesionismo, “salvata” da un manipolo di amici più svalvolati di lei. Anche loro, umani, troppo umani.

Come fin troppo umano mi è sembrato il grido arrabbiato dei Måneskin che hanno vinto Sanremo da meno di una settimana. Anche Sanremo, dall’anno scorso, resterà per sempre legato a ricordi pre-pandemici. Ma lasciamo andare la nostalgia della normalità di una pizza con gli amici o una passeggiata in centro.

Ascoltandoli ho pensato che stavano urlando la rabbia collettiva con la loro canzone. E stavano pure vincendo un festival dando voce a ciò che si agita nelle pance di noi tutti. Probabilmente si tratta di pure e semplici infondate interpretazioni.

È invece certo che nessuna di queste benedette canzoni del festival sia stata dedicata alla pandemia. Forse “Musica leggerissima” parla dei momenti difficili vissuti in quest’anno?

Mi sono chiesta come mai sia stato possibile che nell’anno di una pandemia così mortifera nessuno ne abbia fatto canzone. Mi sono detta che non ce l’hanno fatta nemmeno i cantanti di Sanremo a trasformare l’emozionalità densa da pandemia in parole, in musica, in arte. Nulla, a parte, forse, l’urlo dei Måneskin e il desiderio di niente di Colapesce e Dimartino. Da un lato, un urlo universale oltre che generazionale; dall’altro, un invito alla leggerezza che non è superficialità.

Potrebbe essere tutto un gioco di proiezioni e non so bene perché mi aspettassi che qualcuno trasformasse la pandemia in una canzone. Qualcuno in giro per il mondo lo ha fatto, in effetti, mettendo sotto il riflettore la speranza e facendo un lavoro collettivo, quasi mai solitario.

Sanremo come lo specchio del paese, in piena impasse emotiva da mesi?

Può essere, chissà perché pensare che gli artisti possano riuscire là dove nemmeno gli psicologi riescono.

In effetti, sono mesi che cerco metafore nuove per produrre una conoscenza su questa pandemia. Per costruire non solo conoscenza, ma promuovere trasformazione, anche. Per prendermi cura, in fondo, che sarebbe il mio lavoro.

Obiettivi impegnativi che avevano più forza qualche mese fa, con il sole bello dell’estate. Poi l’autunno ha ucciso i residui di speranza e io ho dedicato le mie energie a progetti solitari. Progetti solitari, compreso quello di sopravvivere alle circostanze, forse finalmente in contatto con la paura di contagiarsi e poter morire, dismessi per sempre gli abiti del soccorritore pandemico.

Per tornare a un luglio assolato, a Blumenberg e alla sua metaforologia, non più spettatori del naufragio, ma protagonisti.


Se sei in pieno naufragio che fai? Pensi a salvarti o fai filosofia?


In effetti, però, la pandemia non è un naufragio. E abbiamo da tempo abbandonato la dimensione emergenziale per vivere una esposizione al rischio di contagio che è cronica. Continuiamo a dire che andrà bene e a tracciare un prima e un dopo, ma in fondo forse sentiamo che non potrà più andare bene e che nulla sarà come prima. Affermazioni che fanno molto male.

Se penso alle persone che abbiamo perso a causa di questa malattia e a qual è il clima emotivo del paese, mi dico che al massimo potremo arrangiarci alla meno peggio. Pensare che torneremo a un prima è solo consolatorio.

Qual è l’alternativa? Probabilmente quella che ci affatica di più, pensare che non sarà come è stato, come il già conosciuto, ma differente. Roba da urlare e da spaesarsi, forse avere voglia di niente.

Il cambiamento fa paura, il pensiero del cambiamento affatica. Forse ci affanna il respiro, come questo virus che ci ha messo di fronte ad alcune grandi verità. La prima è che siamo umani e per questo precari. Sì, come le foglie sugli alberi d’inverno. Non immortali, non curabili sempre e comunque, non padroni del pianeta.

Mi sorprende come le teorie sull’origine della pandemia che la mettono in relazione con modelli di sfruttamento delle risorse e degli animali caratteristici del nostro “prima” non vengano quasi mai ricordate. Non ci piace ragionare del fatto che il nostro “prima” (un modello di produzione, un modello di consumo, un modello di sfruttamento del pianeta) sia stato all’origine di questa catastrofe e aumenti il rischio che ce ne siano di nuove.

Quanto potrebbe bastare a motivarci a cercare strategie alternative. Ma il cambiamento affatica e il capitale chiama.

E io continuo ad essere fin troppo stanca per pensare a nuove metafore. Solo mi dico che forse la chiave della mia metafora mancata si colloca proprio a questo livello, al livello dei ragionamenti di sistema. Lì, insomma, mi dovrei avventurare a cercarla. Allora sì, forse potrei veramente sentire che è il virus la metafora. Una metafora che parla di come stiamo distruggendo il nostro pianeta erodendolo dall’interno. Di come, talvolta, ci distruggiamo piano piano. Un grande percorso verso l’autodistruzione che metto in relazione all’egoismo generazionale e al solipsismo.


Forse il cerchio che in fondo non voglio chiudere, rischia di chiudersi da solo. Torno alla regina degli scacchi e al suo essere umana, troppo umana. Adesso sono sicura che perderebbe la gara con la morte. Ma l’importante, in fondo, è essersi seduta alla scacchiera. E averla guardata in faccia.


Gandolfa Cascio



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