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I Servizi Socio-Educativi.Gli antieroi dimenticati della crisi pandemica


Gli antieroi della crisi pandemica e la continuità della cura nelle comunità per minori. Tra esperienze emozionali rivelatrici e necessità di reframing, è possibile giocare un gioco nuovo?

Le categorie dell'esperienza che condividiamo
con gli altri membri della situazione sociale in cui viviamo
sono un secondo modo in cui i nostri modelli del mondo
differiscono dal mondo in sé.
R. Bandler, La struttura della magia

Lavoro da meno di un anno circa all'interno di una grande Onlus che si occupa di accoglienza temporanea di bambini e/o ragazzi adolescenti in condizioni di disagio personale, familiare e sociale, nei confronti dei quali il nucleo familiare è temporaneamente in difficoltà o incapace di assolvere il proprio compito.

In tutto questo tempo anche noi, al pari dei tanti servizi impossibilitati a chiudere per garantire la continuità della “cura” nei confronti dei più deboli, ci siamo trovati nel bel mezzo della gestione della crisi, che in questo caso non era solo dipesa dall'evento esterno che incombeva da fuori, ma anche dalle continue crisi che incombevano da dentro, pronte ad esplodere da un momento all'altro.

Già, perché la “crisi adolescenziale” o la “crisi di abbandono genitoriale” non aspetta il coronavirus e quando arriva arriva e deve trovare operatori pronti e preparati a tenere botta sulle eventuali necessità e bisogni degli utenti.

Questi, a loro volta, vivono all'interno di una comunità che non chiude, e che allo stesso tempo si è trovata a proteggere i propri “ragazzi”, così noi li chiamiamo, dall'evento esterno, da ciò che stava accadendo fuori, senza saper davvero cosa stesse succedendo se non dai telegiornali, mezzi di informazione comuni come internet.

Allora che succede? Che si fa? Che percezione hanno i ragazzi di quello che sta accadendo fuori?

Dal momento che la struttura in via preventiva aveva anticipato il lockdown già da una settimana e perché, ho la presunzione di dire, che i ragazzi forse il loro lockdown lo vivono quotidianamente. Così molto spesso ci si trova a descrivere quello che sta accadendo fuori come un fatto, un evento lontano che forse a loro non appartiene; è un po’ come spiegare a dei ragazzi che dall'altra parte del mondo sta accadendo qualcosa di grave, di sconosciuto, e molto spesso la risposta è “Sì, ma a noi che ci frega”, oppure “Ma cos'è sto virus?”.

Allora tutto il sistema che si dovrebbe trovare a proteggerli fa fatica, arranca e delle volte naviga a vista perché come gli “operatori sanitari”, anche gli operatori educativi si trovano a dover fare dei turni massacranti pur di stare con i ragazzi; alcuni addirittura rinunciano a tornare alle proprie case per dormire insieme a loro, forse perché è giusto così, o forse perché è meglio non metterli in pericolo.

Già, ma fuori che sta succedendo? Come lo spieghi a loro?

O non lo spieghi e fai finta che non sta accadendo nulla, in una sorta di normalità che loro sono abituati a vivere, oppure fai dei tentativi sapendo che alla fine saranno vani o inefficaci. In questo momento tutto sembra strano e confuso e si evidenzia un contrasto tra quello che accade fuori, con strade deserte e senza passanti, e un luogo dentro, in cui tutti i ragazzi sono rinchiusi nella “comunità”, quando prima si svuotava perché erano abituati ad andare a scuola.

Si inizia la giornata lavorativa con alcune domande: "Cosa facciamo oggi?", "Come ci impegniamo?", "Qual è lo stato d’animo dei ragazzi?", "Come riusciamo anche oggi a svoltare la giornata senza annoiarci insieme al loro?".

Sì, perché qui in comunità la noia è un’emozione un po’ strana, è una noia che nasce dall'interno e la percepisci tutto il tempo, ma poi basta un attimo, una frazione di secondo, per trovarti qualche ragazzo/a che dall'altra parte della comunità sta imprecando proprio sulla difficoltà di gestire tale “noia”, data dall'isolamento che vivono normalmente, aggravato da quello imposto per via del coronavirus, in una sorta di isolamento al quadrato. Così accade che per richiamare l’attenzione qualche ragazzo dica: “Forse ho il coronavirus!”, oppure, “Mi è salita la febbre a 36!”, come se fosse un modo per cercare una vaga somiglianza con quello che sta accadendo fuori, come una necessità di essere uguali a tutti gli altri ragazzi, percepiti come distanti e lontani anche nel vivere la pandemia. Inutile dire che non c’è stato nessun caso di coronavirus e... come poteva essere?

Le appartenenze nella comunità sono necessarie alla sopravvivenza fisica, ma anche mentale, visto che le stesse si configurano come delle costellazioni a sé stanti, in cui ognuna ha il suo nucleo fatto di operatori e ragazzi, nuclei che condividono con gli altri le proprie difficoltà, ma allo stesso tempo si trovano a gestire le proprie crisi in maniera del tutto autonoma. E così il “Covid – 19”, anche qui chiamato “coronavirus”, sembra una figura arcaica, come quella del lupo cattivo in Cappuccetto Rosso, che inizialmente appare come una figura negativa, ma poi piano piano diventa quasi un qualcosa di innovativo, di ingenuo e comunitario, spingendoti a fare delle cose attivando le proprie risorse, una sorta di resilienza di piccola comunità, dove l’elemento essenziale diventa poi il capitale umano all'interno della stessa.

Infatti, come suggerisce Castelletti (2006): "Non c’è documento, manuale, testo riguardante l’assistenza umanitaria e la cooperazione allo sviluppo nell'ultimo quinquennio che non utilizzi il concetto di resilienza comunitaria come ispiratore degli interventi psicosociali e non". Tale concetto, in qualche modo, dovrebbe, continuando con Castelletti, far riflettere su un cambiamento epistemologico che oggi ancora facciamo fatica a comprendere, rovesciando in parte la tradizionale logica degli interventi basati sul concetto di crisi e vulnerabilità - pensiamo per un attimo a tutta la psicologia del trauma - e ponendo quelli di opportunità e resilienza.

Infatti, molto spesso, mi sono chiesto: "Come si può trasformare tutto questo in una opportunità?"

D’altra parte, anche la psicologia sistemica ci ha insegnato che la psicosi acuta può essere una manifestazione di un’esperienza di crescita all'interno di un nucleo familiare. Ma di fatto resta sempre l’interrogativo del come si fa tutto questo, perché il passare da una comunità come una popolazione interagente di individui ubicati in un contesto comune a una comunità resiliente è un lavoro più complesso di quello che appare.

Forse in parte quello che ci siamo trovati ad affrontare come operatori è di sperimentare quel senso di unione, di coesione sociale interna alla nostra organizzazione. Questo è avvenuto anche grazie alla capacità degli utenti che si sono trovati catapultati da un momento all'altro in un nuovo modo di vivere la comunità. Come già accennato, un fattore esterno delle volte può essere un’esperienza emozionale rivelatrice, può essere anche il risultato di ciò che nel campo della psicologia viene definito “reframing”, ridefinizione, ovvero l'attribuzione di un significato diverso alla medesima situazione.

“Qual è la differenza tra un ottimista e un pessimista?”, ci si chiede in un famoso detto. Per l’ottimista il bicchiere è mezzo pieno, per il pessimista il bicchiere è mezzo vuoto. Probabilmente entrambi sono convinti di aver ragione e che, dunque, l’altro ha torto. Da ciò deriva, come ci suggerisce Watzlawick, sia l’ostinazione con cui rimaniamo ancorati alla nostra visione del mondo, sia la possibilità di cambiamento da una visione del mondo penosa a una meno penosa, attraverso la procedura che consiste nel porre la stessa situazione, in una struttura diversa, per creare una realtà di secondo ordine di diverso genere. Questo è quello che costantemente ci troviamo a fare con i nostri ragazzi, ovvero passare da una visione sfortunata della loro vita al mostrare loro delle opportunità, o, nei termini di Wittgenstein, nell'insegnare un gioco diverso: forse anche il virus in questo senso è stato un modo per giocare in modo differente nella nostra comunità.

Questo è stato facile?

Assolutamente no! Cambiare questa visione in così poco tempo non è stato facile, ma restare ancorati alla vecchia visione poteva essere fatale.

D’altra parte una comunità che esiste solo individualmente come mero aggregato di famiglie non sarà pronta a collaborare verso un obiettivo importante che vada oltre l’individuo o il gruppo familiare. Una comunità resiliente è in grado di proiettarsi nel futuro mantenendo la sua specificità. Sviluppando una visione strategica della quale la maggior parte dei suoi membri è in grado di farsi carico in base alle risorse disponibili e accessibili. Come comunità in questo senso ci siamo trovati a metà strada tra un sistema pronto a contenere le crisi dei ragazzi, dettata dall'urgenza del momento, a un sistema che in poco tempo si è trovato a dover rivedere alcune regole stesse del proprio sistema di appartenenza.

Già, perché da una parte questa crisi ci ha insegnato che di fronte alle difficoltà forse siamo più soli di quello che vogliono farci credere, ma allo stesso tempo possiamo attivare quelle risorse che neanche sapevamo poi di avere; il senso comune direbbe: “Si fa di necessità virtù”. Il rischio che possiamo correre appunto è quello di essere percepiti come gli antieroi della crisi, come dei “Don Chisciotte” postmoderni oggetto di simpatia, ma anche di scherno altrui, come figure tipicamente inferiori rispetto ai veri eroi della crisi, pensiamo a tutto il personale sanitario. Noi professionisti senza “riconoscimento e identità”, come oggetto della simpatia e dell'immedesimazione, che alla fine ce la faranno da soli, come ce l’hanno sempre fatta.

A cura di Daniel Perrelli Psicologo Specialista in Psicologia della Salute


Bibliografia

Castelletti, P. (2006). La metafora della resilienza. Dalla psicologia clinica alla psicologia dell’assistenza umanitaria e della cooperazione. Nuove tendenze della psicologia, 4(2): 211-233.

Watzlawick, P. (2007). Guardarsi dentro rende ciechi. Milano: Ponte alla Grazie.

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