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Il quaderno degli appunti. Un caffè con Paride Braibanti.

Aggiornamento: 3 mag 2020


Paride Braibanti insegna psicologia presso l'Università di Bergamo. È stato presidente della Società Italiana di Psicologia della Salute e docente della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute presso "Sapienza" Università di Roma.

 

Conversazioni sulla salute ai tempi del COVID-19. La psicologia tra richiami delle sirene e necessità di prendere appunti.


Benvenuto nel nostro blog Paride, volevamo intanto ringraziarti per aver accettato il nostro invito a prendere un caffè insieme.

Come ti abbiamo detto al telefono, questo blog nasce dal desiderio di pensare ad alcune questioni rilevanti per la professione psicologica, desiderio che è ancora più forte in un momento come quello che stiamo vivendo in cui sembra esserci spazio solo per i grigi, tutto è incerto e forse mancano degli appigli.

Per esempio, tra di noi ci siamo molto interrogati sulle dichiarazioni di alcuni colleghi che pensano che ci sarà solo il post-traumatico, che parlano solo di trauma collettivo, pensando ad interventi in termini prevalentemente individuali.

Abbiamo anche riflettuto sul tema dell’avvento di una nuova era, diffuso anch’esso tra colleghi ed intellettuali che pensano che la pandemia ci cambierà per sempre. Anche Grossman ha scritto un bel pezzo su Repubblica su quello che succederà dopo.

Ora, noi spesso ci chiediamo cosa succederà dopo e molto onestamente ci diciamo che non sappiamo fare previsioni.

Fate benissimo a fare il blog, soprattutto se lo tenete come un posto dove si prendono appunti, dove ci si scambiano annotazioni, dove non si costituiscono delle risposte. Uno spazio che accoglie delle note, delle riflessioni, in cui si fa emergere la categoria del dubbio. Infatti, penso che in questo periodo è meglio restare in silenzio e ascoltare, se mai, prendendo degli appunti. Io avevo in mente di restare in silenzio, prima che voi veniste a “bussare” per chiedermi di fare questa chiacchierata insieme.


Siamo d’accordo con te e ci auguriamo di riuscire a mantenere un atteggiamento che sposi l’epistemologia dell’ignoranza di cui abbiamo spesso parlato, consentendoci di rimanere in dialogo e aperti alla costruzione di nuove narrazioni.

Con questa premessa, se sei d’accordo, possiamo iniziare con alcune questioni che volevamo condividere con te.

Vediamo che tutta la nostra categoria si sta molto mobilitando per offrire interventi di supporto psicologico focalizzati sull’emergenza Covid. Qual è il tuo pensiero rispetto al posizionamento e alle proposte di intervento della psicologia in Italia oggi?

Condivido la mobilitazione degli psicologi, ma nel migliore dei casi risponde ad un’esigenza degli psicologi. Un bisogno di attivarsi, essere presenti, generosi. In alcuni casi è opportunismo; per esempio, vedo comparire delle offerte che propongono i primi tre incontri gratuiti e una prosecuzione a prezzi calmierati. Poi, altri approfittano di questa situazione per accreditarsi come realtà in grado di prendere in carico la sintomatologia post-traumatica secondo modelli standard. Non che non ci siano e non ci saranno situazioni che necessitano di un intervento clinico, ma è necessario collocarli adeguatamente, considerando che queste proposte non rispondono a tutti i problemi e non esauriscono tutte le proposte.

Poi mi accorgo spesso che gli psicologi si muovono sulla base di una richiesta, che non viene generalmente dalle persone che sono esposte, ma dalle istituzioni che chiedono l’intervento psicologico sulla base delle loro rappresentazioni sui bisogni rilevati. Mi spiego meglio, molto spesso, come direbbe Carli, gli psicologi colludono con la rappresentazione che il committente ha del problema. Per questo, la prima cosa che chiederei ad uno psicologo è se abbia fatto l’analisi della domanda, se ha presente quali sono i bisogni che corrispondono alla domanda.

Sono preoccupato per gli studenti di psicologia e i colleghi perché le “sirene del post-traumatico” sono sirene pericolose; queste definiscono un ruolo, una tecnica, una modalità di intervento ed hanno il crisma della scientificità. Nonostante i miei studenti e i colleghi si lascino talvolta abbagliare da queste sirene, spesso mi permettono anche di riflettere, raccontandomi le loro esperienze. Per esempio, un collega psicologo che sta lavorando nel campo delle indagini epidemiologiche mi ha raccontato di una “trasgressione”. Nella sua azienda, invece di mangiare tutti separati, ogni tanto ordinano la pizza e la mangiano tutti insieme. Questo episodio ci ha dato lo spunto per parlare della disubbidienza come intervento psicologico. Mi spiego meglio, non mi riferisco al fatto di trasgredire e andare a mangiare una pizza o fare come il signore di Palermo che va in spiaggia ogni giorno perché tanto ha i soldi per pagare le multe. Questi sono solo sintomi della disubbidienza, mentre noi abbiamo riflettuto su quanto sia diversa l’organizzazione della disubbidienza nei termini di una disubbidienza rispetto alla cultura emergente dell’isolamento e del controllo sociale sulle persone. La disubbidienza da organizzare è una disubbidienza solidale che comporta anche non accettare la logica dell’isolamento, la logica della separatezza, e lavorare contro l’ipotesi di una società guidata da virologi e psicologi che si riconoscono in modelli di intervento focalizzati esclusivamente sul trauma. Gli psicologi devono evitare di farsi inquadrare in una realtà dove possono essere, volontariamente o involontariamente, complici di un’organizzazione che rimanda alla docilità sociale.

All’interno del tuo libro “Ripensare la salute” affermi che “Non c’è un sapere che definisce la salute a priori, poiché essa è definita dai discorsi tra le persone, dal sapere sociale che si articola in modo complesso e che vive di un movimento fatto di incontri e di scontri” (p. 110).

Quali sono i discorsi che in questo momento definiscono la salute secondo te?

Per rispondere è necessario far confluire le varie architetture discorsive che si muovono attorno alla salute, integrandole. Oggi la salute è alle prese con la paura, il senso di insicurezza, il senso di isolamento, si cristallizza in modi diversi. Ma è importante dire che la salute si riconduce, soprattutto in questo momento, alla necessità di far fronte ad un bisogno di cambiamento. Oggi è questo, ma forse è oggi, ieri e sempre. La salute è il confronto con le risorse di cambiamento e con l’urgenza di fuoriuscire dai vincoli che riducono i gradi di libertà, per usare delle espressioni care a Giovanni Guerra. Noi siamo in una fase nella quale vediamo drammaticamente ridotti i gradi di libertà e oggi sembra che la salute consista nell’assoggettarsi a questa riduzione dei gradi di libertà.


Invece mi sembra di capire che per te la salute non stia in questo assoggettamento, bensì in un movimento trasgressivo di organizzazione della disubbidienza.

Sì, per me oggi un’operazione di salute è l’organizzazione della disubbidienza. Ma non parlo della disubbidienza ribellistica, cioè del faccio quello che voglio.

Questo movimento non consiste nella restaurazione di una illusione di libertà che era diffusa in precedenza. Mi spiego meglio, le persone vogliono uscire di casa e andare a fare l’aperitivo perché pensavano di poter esercitare la propria autodeterminazione nel decidere di andare a fare l’aperitivo, mentre invece erano determinate da un marketing che costruisce le loro modalità di pensiero.

Non penso che la disubbidienza corrisponda alla restaurazione di una supposta autodeterminazione; la disubbidienza di cui parlo ha a che fare con un movimento che permette di riaprire gradi di libertà. Per me, ma magari mi sbaglio, questa riapertura si concretizza nell’attivazione di legami sociali solidali. Lo slogan degli amici spagnoli che dicono “Distanziamento fisico e solidarietà sociale” descrive il movimento di cui parlo, che contrappongo allo slogan degli epidemiologi che parlano solo di distanziamento sociale: distanziamento sì, ma fisico; insieme alla solidarietà sociale. Questo è lo spazio della disubbidienza.


Rispetto al distanziamento fisico, ci chiedevamo qual è il suo impatto sugli aspetti relazionali.

Un impatto sicuramente c’è, questa questione solleva una dimensione problematica perché per noi la relazione è tuttora istituita all’interno del contatto fisico tra corpi. L’impossibilità del contatto fisico ci lascia solo un flusso di emozioni disordinate e disembodied, disincarnate, che non può più ricomporsi entro i rituali espliciti o impliciti destinati a veicolarle e contenerle entro una “forma” sociale di “compassione”. Per esempio, se pensiamo ai rituali del lutto, ci rendiamo conto che noi ne abbiamo bisogno, non basta andare sul balcone a cantare, noi abbiamo bisogno di piangere insieme, del corpo, di abbracciarci. Questo è un isolamento che isola i corpi dalle emozioni, il che fa pensare che le emozioni possano essere esercitate indipendentemente dal corpo. Questo dato rappresenta un problema e abbiamo la necessità di raccogliere maggiori elementi per la comprensione di una situazione così connotata da un punto di vista emozionale. Abbiamo bisogno di ricerca, di capire “come fare”, oltre che di osservare la realtà e ciò che accade. Poi, certamente il fatto che possiamo vederci, per esempio tramite le piattaforme tecnologiche, è già importante. Non sono convinto, però, che semplicemente questa sia la strada. La strada è quella di inventare “nuove forme di compassione responsabile e disobbediente”.

Per esempio, mi piacerebbe pensare che, visto che siamo in un territorio molto religioso, i parroci, invece di girare abitazione per abitazione - per carità fanno un lavoro utile - potrebbero far sì che gli adolescenti che sono chiusi in casa, garantendo le misure di sicurezza, possano uscirne per sistemare la città, per curarsi del territorio, per aiutare le persone, per trovare il modo per rendersi utili, per restaurare un rapporto con le comunità, con il verde ed il paesaggio. Io penso che organizzare delle forme di resistenza voglia dire organizzare delle forme di contatto che permettano di vedere “oltre” rispetto al proprio isolamento desolato emozionale, che possano farci intravedere nuovi spazi di azione per nuove forme di contatto.

Del resto, io non capisco perché oggi debba essere possibile attivare i contatti per la produzione e non sia possibile costruire i contatti per attivare la solidarietà. Io penso che questo debba essere il fronte della resistenza: che si mantenga il distanziamento sociale/fisico, ma che si creino allo stesso tempo delle forme di vicinanza.

Forse in questo momento è diffuso un atteggiamento infantile, come i bambini che, quando si sentono minacciati, diventano buonini buonini, pensando che in questo modo possano assicurarsi la benevolenza dei genitori. Adesso le persone interpretano il personaggio del bravo bambino, stanno a casa, diventano ubbidienti, ma temo che questo sia paura, non consapevolezza. Potrebbe essere che le persone stiano attivando dei meccanismi di pensiero di tipo magico nel tentativo di assicurarsi la benevolenza degli dei, del fato. I bambini dicono: “Da ora in avanti diventerò bravo”. Oppure, penso a quelle persone che, quando incominciano a tossire, si dicono: “Io smetto di fumare, non fumerò mai più”. Poi, quando finisce la tosse, ricominciano a fumare e tutto torna come prima. Fa parte dei meccanismi di difesa di fronte a cui ci troviamo in questo momento. Il nodo è che la psicologia questi meccanismi di difesa li deve analizzare invece di sostenerli, li deve rendere espliciti invece di rinforzarli.


Sono discorsi che rimandano al tema del posizionamento della psicologia in genere e della psicologia della salute nello specifico.

Negli scorsi giorni, una vostra collega mi ha chiesto cosa avrebbe potuto fare in questa situazione. Io sono convinto che in questo momento le persone devono agire dove sono e nell’ambito delle responsabilità che già hanno. Oggi credo che sia inappropriato rispondere a responsabilità che non si hanno già da prima. Per esempio, quando mi si chiede di esprimermi, ci tengo a chiarire a che titolo sono chiamato a farlo e come posso esercitare la responsabilità che mi riconosco. Non quella che mi viene riconosciuta dagli altri, ma quella che io mi riconosco per la posizione che ho nella mia storia e nei contesti dove ho esercitato la mia professione. L’idea di essere dei “fuoriclasse” che possono esercitare la propria responsabilità fuori dai contesti dove si opera, credo che sia fuorviante. Quindi, intanto, è una responsabilità che richiede un’analisi del proprio posizionamento e una analisi delle implicazioni della responsabilità rispetto ai processi che ci competono.

Per esempio, gli psicologi che lavorano in un contesto ospedaliero che conosco da anni, adesso continuano a fare il loro mestiere con i pazienti e i lavoratori. Inoltre stanno in corsia senza esercitare delle specifiche mansioni, perché si può esercitare una funzione psicologica senza avere un ruolo definito. Gli psicologi in corsia sono lì per “essere presenti” e per attivare forme di contatto là dove sono necessarie. Si sono accorti che non è importante far parlare le persone per farle sfogare, ma per trasmettere l’idea che “si può essere presenti” in situazione di alto stress. “Tenersi presenti” non necessariamente con interventi ben strutturati. Continuare a fare il lavoro che si stava svolgendo prima di questa pandemia non vuol dire semplicemente mettere a disposizione gli strumenti che avevamo già attivato in situazioni diverse, bensì capire che è necessario decostruire e ridefinire il setting dell’intervento psicologico.


Quindi Paride, quello che stai dicendo è che non dobbiamo inventarci e improvvisarci in nuovi ruoli?

Sì, ma ciò non vuol dire che non si possano e si debbano esplorare nuovi territori. Per esempio, un giovane psicologo che vive in un quartiere, si assume una responsabilità nel territorio dove vive. Non è che ti metti a fare altro. Può chiedersi come mettere a disposizione le sue competenze psicologiche all’interno dei processi dove è coinvolto e in cui riconosce una propria responsabilità. Non vuol dire che lui debba per forza avere un’assunzione di una responsabilità entro un ruolo. Non è il ruolo, è la posizione che conta. Ruolo e posizione non coincidono. Io non dico che gli psicologi debbano stare fermi, ma che debbano analizzare il tipo di responsabilità che si riconoscono rispetto al proprio posizionamento ed impegnarsi a rendere questa responsabilità esercitabile avendo fatto un esame in profondità dei propri dispositivi di difesa.

C’è sempre uno spazio per l’innovazione, ma partendo dal proprio posizionamento rispetto ai processi che ci vedono coinvolti e partendo dall’analisi dei propri meccanismi di difesa. Partire dalla propria esperienza può portarci a nuove opportunità? Forse, ma non a delle opportunità sulla base di una prefigurazione dell’invenzione di uno spazio professionale preesistente. Mi sembra necessaria una riorganizzazione degli spazi professionali intorno ad una propria presenza, storia, posizionamento in un determinato contesto.

Pensavo al vostro blog, a questo spazio. Secondo me questo spazio può essere una risorsa tra colleghi, ci può aiutare a porci delle domande rispetto alle proprie responsabilità e a riflettere sull’analisi della domanda che è necessario fare rispetto alle richieste che ci vengono avanzate.


Mbembe ha scritto un articolo sul diritto a una vita respirabile. Quando parli di disubbidienza organizzata l’idea mi fa emergere un “sospiro di sollievo”; si dovrebbe parlare del diritto a una vita respirabile e disubbidiente/solidale. Definire delle strade concrete sembra un compito difficile e complesso.

Penso che nessuno di noi tre abbia il compito e la possibilità di salvare il mondo. Il mondo si salva da solo e noi dobbiamo solo capire come questo può avvenire nell’ambito delle responsabilità che abbiamo. Ci sono degli spazi di disobbedienza dove siamo, organizziamoli lì. Le persone hanno il diritto di essere accompagnate nell’esercizio dei loro compiti e delle loro responsabilità senza imporre loro nessuna limitazione. Mi riferisco agli interventi psicologici volti alla promozione delle risorse che accompagna i soggetti nella progettazione del proprio cambiamento.

C’è un mainstream che ti dice “Curali!”, io ti dico “No”. La cura di sé, oggi, è muoversi all’interno di relazioni e di pensare e riprogettare il proprio futuro. Questo secondo me, oggi, è uno spazio di disobbedienza. È una cosa piccola naturalmente. Ma è uno spazio di disobbedienza. Si tratta di mettersi dentro dei dispositivi per capire in che modo possiamo agire in modo da moltiplicare gli spazi di opportunità di cambiamento e gli spazi di resistenza.

Poi, se il mondo si salverà, non lo sappiamo, non tocca a noi deciderlo. Anzi, l’idea che adesso noi lanciamo delle iniziative che possano cambiare le cose, oltre ad essere illusorio, non ci fa nemmeno tanto bene. Proviamo ad esercitare la responsabilità. Già questo, esercitare la responsabilità dove siamo, è difficile.


Possiamo parlare di un’altra responsabilità, quella dei sanitari. Dal tuo punto di vista come stanno esercitando la loro responsabilità?

Per esempio, ci ha molto colpito il richiamo alla medicina delle catastrofi oltre che la narrazione secondo la quale i medici avrebbero cominciato a scegliere tra i pazienti da inviare alle terapie intensive escludendo i pazienti più anziani o pluripatologici.

C’è per la prima volta l’esplicitazione dell’applicazione di alcune pratiche che escludono dalle cure delle persone considerate residuali che, per ragioni di salute o di età, sono ritenute sacrificabili.

In questo senso ha ragione Agamben, si tratta di forme di vita nuda. Nella situazione specifica si tratta degli anziani.

Questo ci deve far riflettere perché ha aperto un varco culturale che rende impegnativo e difficile anche tutto il discorso sull’eutanasia. Perché è evidente che il combinato disposto della residualità dell’anziano e della possibilità di esercitare l’eutanasia potrebbe finire per produrre uno scivolamento di un diritto esercitabile, quello di sottrarsi a una modalità di vita non dignitosa, in una specie di obbligo introiettato dall’anziano: io sono un peso, io non conto più, devo lasciare posto ai miei nipoti… E allora questo, secondo me, comporta che noi rivisitiamo questa prospettiva e questa dimensione.

Credo che l’impatto culturale sia stato significativo. Prima, se c’era un posto in terapia intensiva, nessuno si azzardava a dire che tra un giovane e un anziano io privilegio il giovane. Nessuno si azzardava e, se si azzardava, tutti quanti dicevano: “Guarda che non è così, guarda che non si può fare in questo modo…”. Oggi, invece, esplicitamente è stato così.


Questa è la logica della medicina di guerra?

No, la logica della medicina di guerra non è questa, non funziona così. La logica della medicina di guerra è che tu curi il curabile, non che escludi una categoria. Non è che tu non curi l’anziano. Curi il curabile sulla base di una analisi clinica. Se io ho poche risorse, utilizzo le risorse di cura su chi è curabile.

La linea di intervento della disponibilità delle risorse è fatta in funzione della gravità. Si cura dapprima il più grave, mentre in situazioni di emergenza dove non hai risorse per tutti, come in guerra o durante una catastrofe, curi il curabile. Cioè, cerchi di prestare cure a chi ha più probabilità di sopravvivenza.

Invece, in questa situazione di pandemia, dalle informazioni che mi arrivano, sembra che sia stata fatta una valutazione per categorie. Per esempio, sembrerebbe sia stato detto di non portare gli anziani in ospedale perché non avrebbero avuto il beneficio delle cure; in Olanda lo hanno detto esplicitamente: era preferibile che le persone di 80 anni non si recassero in ospedale perché tanto non avrebbero potuto sostenere la terapia intensiva.

Questo è aver sfondato una linea, è successo qualcosa che comporta che le persone sperimentino una fragilità culturalmente definita. Credo che ci sia oggi, sul Manifesto, un articolo di una persona che dice: “Ho scoperto di essere anziano”. Questo è interessante.

Cosa resta delle Dementia Friendly Communities? In realtà le persone con demenza non vengono curate, e questo è un problema. Per esempio, una forma di disubbidienza è curare le persone dementi.


Ci chiedevamo quale potrebbe essere il tenore del discorso medico intorno a questi temi e quanto dirsi che “stiamo applicando i principi di medicina delle catastrofi” non comporti una deresponsabilizzazione in un momento in cui abbiamo detto che l’assunzione di responsabilità è fondamentale.

Pensiamo, in altri termini, che avere una linea guida rigida che ti dice cosa fare in un momento di stress e sovraccarico emotivo, sia più semplice.

Vi ho detto cosa mi hanno raccontato? Quale era il metodo decisionale in ospedale? “Abbiamo 3 posti in terapia intensiva, chi riesce ad alzarsi li prenda”. È chiaro che sarà stato un caposala, un medico, un infermiere a dire queste cose, forse stressato. Ma queste posizioni non sono sostenibili né da un punto di vista bioetico, né giuridico. Nel senso che una decisione di questo tipo non è sostenibile. Tanto è vero che nessuno sostiene apertamente di aver fatto così e anche di fronte a direttive estremamente ambigue che vengono fatte, tutti poi le riconducono a delle condizioni di ragionevolezza e legittimità. Nessuno dice che gli anziani non devono essere curati, nessuno sostiene queste posizioni. Di fatto, non sono stati curati. Di fatto sono state prese decisioni di non curarli, ma nessuno ha preso in modo così determinato ed esplicito questa decisione. Perché è assolutamente insostenibile. Ma è considerato culturalmente accettabile, questo è grave secondo me.


Diciamo che, a parte evocare la questione della responsabilità, mentre pensavo a come si sta costruendo il discorso medico intorno al Covid, mi chiedevo se i medici si staranno confrontando con la scoperta che la medicina è fallibile o lo sapevano già. Sicuramente il Covid ci ha fatto riscoprire mortali perché, in condizioni diverse e più gravi, la nostra esperienza è che la medicina ti cura e ti salva. In questa situazione, chi immaginava che un banalissimo virus avrebbe potuto fare tutti questi morti?

Io penso che quello che è stato veramente messo in discussione non è l’onnipotenza della medicina, ma del sistema medico. Non è stato scoperto che la medicina non può salvare tutti, perché questo lo si sapeva già. Si è però reso evidente che i sistemi medici sono fragili, che possono implodere.

Non sono convinto che i sanitari si stiano confrontando con la scoperta che la medicina è fallibile. Non è che i sanitari siano impreparati alla morte, soprattutto chi lavora in terapia intensiva è preparato a vedere le persone morire e a confrontarsi con la propria impotenza. Quello a cui sono impreparati è vedere che il sistema scoppia, che a fallire è il dispositivo che in genere li protegge, non il loro strumento. In altre parole, è come se i sanitari misurassero la propria impotenza sul fatto di essere inseriti in un sistema che ha smesso di funzionare.

Vedere che un paziente muore, fa parte della propria professione; ma perdere fiducia nel sistema è più complicato. Si tratta però anche di una questione dove c’è spazio di manovra, dove è possibile aprire uno spazio di progettazione.

Avete poi sollevato un’altra questione con la quale siamo entrati in contatto, l’idea della finitudine. Si tratta di un nodo interessante. Oggi, di fronte alle catastrofi, la tendenza è a soffermarsi ed indugiare nel contemplare la nostra vulnerabilità invece che dedicarsi ad attivare risorse resilienti. Quarant'anni fa la sollecitazione era a reagire ed essere resilienti. Oggi la sollecitazione è a chiudersi nella propria vulnerabilità. Questo vale anche per gli eroi sanitari che vengono comunicati attraverso la loro fragilità, con la foto di un’infermiera che si abbandona, che non ce la fa più. La cultura della vulnerabilità è una delle cose più imperdonabili di certa psicologia che ha purtroppo sdoganato l’idea che le persone si qualificano per la propria vulnerabilità e non per la propria resilienza. È la psicologia che ha costruito l’idea di una onnipotenza del Sé, che ha promosso l’obiettivo dell’onnipotenza del Sé, che non smette di parlare di autostima, autoefficacia, autodeterminazione. Come se si preparasse il terreno alla diffusione di un vissuto che descrive le persone soprattutto nei termini delle loro fragilità.

Paride, credo che ci siano veramente molti spunti di riflessione che sono emersi in questo tempo trascorso insieme. Dalle questioni relative ai propri vissuti, al proprio posizionamento come psicologi, alle questioni che riguardano il nostro agire. Pensare ai meccanismi di difesa degli psicologi in primis, all’analisi dei bisogni come competenza psicologica da mettere in campo, all’importanza dell’analisi della domanda come punto di partenza per sviluppare una nostra funzione nei contesti che ci vedono coinvolti, nei quali esercitiamo la nostra responsabilità. Direi che risulta fondamentale la tua proposta di fondo, che orienta qualsiasi intervento psicologico nella sua funzione di promotore del cambiamento, di “perturbatore” in un certo senso, ovvero l’operazione di salute che hai definito intorno “all’organizzazione della disubbidienza”. Infine, appare importante il tuo invito a restare “perplessi” di fronte alle narrazioni che facciamo sul Covid e sui cambiamenti sociali in atto, riflettendo sulle architetture discorsive diffuse e sull’impatto che hanno su di noi e sulle nostre prassi professionali. Restare perplessi per poter mantenere uno sguardo che possa interrogare la realtà e metterla in discussione. Grazie Paride per aver condiviso con noi questo caffè davvero ricco di sfumature e di complessità. A presto!

 

Intervista a cura di Gandolfa Cascio e Carlota Zorrilla Ruiz

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