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La giusta distanza: piccole grandi opportunità


Nell'idea di mantenere un "quaderno degli appunti", l'articolo che vi propongo è una riflessione tratta dall'esperienza vissuta come psicologa in un progetto di supporto a distanza per famiglie con figli dello spettro dell'autismo. Un aspetto importante di tale esperienza è stato osservare come un’occasione di ascolto può diventare il pre-testo per pensare. Pensare l’esperienza ha le potenzialità di un intervento.

 

Questo spazio di pensiero vuole ripercorrere una linea di riflessione focalizzata sulle risorse che si sono rese maggiormente visibili ai miei occhi (forse non solo ai miei), ma che in realtà erano lì da tempo.

Durante le prime settimane di quarantena, mi è apparso interessante notare come sembrava esserci una necessità (nei media e nei giornali) di mettere in evidenza come alcune “categorie” di popolazione, con le loro caratteristiche distintive, potevano star affrontando questo periodo di ribaltamento delle regole di convivenza. Pur riconoscendo l’importanza che possano aver avuto le narrazioni che hanno attenzionato le fragilità di alcuni collettivi, credo valga la pena soffermarsi anche sulle possibilità con le quali si è trovato un modo per continuare a vivere, nonostante quella che sembra per molti, una situazione ulteriormente limitante. Parlo di chi oltre ad aver vissuto la quarantena, si riconosce o viene riconosciuto in categorie come la disabilità o le malattie croniche, entrambe, ambiti di mio interesse.

Per quanto riguarda il mio lavoro nell'ambito degli interventi con le persone nello spettro dell’autismo, svolgo interventi psicoeducativi di matrice cognitivo-comportamentale. La premessa fondamentale dell'intervento riguarda il coinvolgimento delle persone che fanno parte dei contesti di vita significativi del bambino/a nello spettro. Ciò è fondamentale poiché è la diffusione di una cultura della prospettiva autistica ad essere alla base dell'intervento. In questo modo, e seguendo le parole di Jim Sinclair (una persona nello spettro dell'autismo), ci sentiamo spronati a costruire ponti tra "noi", un noi segnato da almeno due forme ben diverse di funzionare: persone neurotipiche e persone neurodiverse o autistiche. In termini pratici, ciò significa trasmettere alle persone, mediante un movimento educativo, le conoscenze e le tecniche che possano sostenere lo sviluppo di competenze necessarie ad equipaggiarsi per un mondo di persone neurotipiche, e ad equipaggiare i neurotipici con gli strumenti necessari per comprendere la prospettiva autistica.

Spesso le famiglie con bambini autistici sono fortemente coinvolte in modalità di intervento impegnative, se si considera la diversità e quantità di "operatori" (psicologi, logopedisti, neuropsicomotricisti, educatori, ecc.) che ruotano intorno a loro. Questi bambini passano molto tempo impegnati in attività di tipo riabilitativo o psicoeducativo, a seconda della prospettiva con la quale si pensa l’intervento e l’autismo. Non approfondirò tale questione ora, nonostante penso sia significativa e possa essere interessante ritornarci in futuro.

L'apparato complesso di attività e relazioni che sostengono l'educazione e, per chi così la esercita, la riabilitazione di questi bambini, è venuto meno nel momento attuale, dove il Covid-19 ha portato il governo a prescrivere l'isolamento fisico (isolamento dei nuclei famigliari).

È in questo contesto che l'associazione con la quale collaboro si è mossa con grande tempestività, per offrire un supporto alle famiglie dei bambini nello spettro dell’autismo durante le prime settimane di emergenza.

Sono stata coinvolta come psicologa che già si occupava degli interventi psicoeducativi nei diversi contesti di vita dei bambini (domiciliare, scolastico e studio privato) e vorrei soffermarmi sulle questioni che si sono aperte nel confronto con il gruppo di genitori, che ha partecipato al progetto di supporto a distanza.


Come si è sviluppato il progetto? Sostenendo a distanza, attraverso videochiamate, mail, messaggi, telefonate e materiali diversi, l'obbligata delega educativa e riabilitativa che è improvvisamente ricaduta sulle famiglie.

Il progetto è durato tre settimane, sono state coinvolte circa 30 famiglie con bambini nello spettro autistico. Il progetto si è sviluppato in tre fasi, una per ogni settimana, in cui famiglie e professionisti hanno avuto un incontro online della durata di 15 minuti: una volta al giorno durante la prima settimana; tre volte a settimana durante la seconda settimana; una volta durante la terza settimana. Alla fine della prima settimana e della terza si è chiesto ai genitori partecipanti di compilare un questionario online che ci avrebbe permesso di comprendere maggiormente l’andamento e soprattutto, la qualità del supporto offerto in termini di soddisfazione e di fruibilità dei suggerimenti proposti.

Nonostante i risultati dei questionari siano stati ottimi e quasi la totalità dei feedback sia stato molto positivo, ciò che mi è sembrato significativo e interessante è stata la loro condivisione dell’esperienza fatta in quelle tre settimane.

In un incontro su una piattaforma online ci siamo messi all'ascolto delle famiglie. Fortemente emozionati, hanno raccontato di essersi sentiti accolti, contenuti, accompagnati. Siamo stati bravi? Forse, ma ci hanno detto anche altro. Hanno sentito di doversi sostituire agli operatori data l’assenza forzata di questi ultimi.

Potremmo anche pensare che questo sentimento sia da generalizzare a ciò che è avvenuto in relazione alla scuola, poiché l’istituzione ha dovuto utilizzare i genitori come una sorta di braccio annesso, per poter portare avanti gli obiettivi didattici. Mi chiedo quanto questi possano essere implementati semplicemente tramite la trasmissione di materiale da parte degli insegnanti a genitori e allievi. Per molti ragazzi nello spettro autistico, durante le prime settimane, non è stato possibile accedere alle piattaforme o ai rapporti diretti con la propria classe. Inoltre, mi chiedo cosa succede con la parte educativa in toto. Come può un genitore sostituirsi alla scuola in quanto istituzione deputata all'educazione delle persone, il secondo contesto di vita più significativo per lo sviluppo nelle nostre società?

Riflettendo, mi sono chiesta se ciò che stava avvenendo aveva a che fare con una sorta di riappropriazione della delega, delega depositata dai genitori nelle equipe che svolgono l’intervento, e assunta da questi ultimi. La questione può riguardare anche il rapporto consolidato fino ad oggi tra scuola e famiglie, rapporto in fallimento collusivo in molti casi, come esplicitato altrove?

In un incontro di tavola rotonda fra esperti che si occupano dell’autismo in ambito prevalentemente pubblico (“Autismo e Coronavirus: tra fase 1 e fase 2”, Corriere del Ticino) i professionisti che si sono attivati per continuare a seguire le famiglie a distanza, si sono sorpresi nel costatare quanto le loro indicazioni, i suggerimenti, le loro tecniche trasmesse ai genitori, per alcuni per prima volta, fossero forzatamente inserite nei contesti di vita dei bambini e i ragazzi. Come se all'improvviso fosse apparso chiaro che oltre le pareti dei centri di riabilitazione, la vita fosse decisamente più vasta, complessa e ricca di quanto non lo siano i setting controllati dei centri, e quanto gli obiettivi di trattamento siano necessariamente suscettibili di essere deformati e deformanti nell'incontro con l’extra-muros.

I genitori che avevamo di fronte (sullo schermo del pc) si riferivano a noi e non ai colleghi dei centri pubblici. Noi che abbiamo un modello di riferimento per l’intervento psicoeducativo che prevede come parte fondamentale il coinvolgimento del genitore, sia durante lo svolgimento dell’intervento con il minore, sia in spazi altri (per esempio, durante i cosiddetti parent training).


Mi sono chiesta se non fosse il caso di interrogarsi su ciò che accade in quella delega, a quali bisogni risponde e in che modo va trattata in relazione alla richiesta di intervento avanzata dai genitori.

Il secondo aspetto importante di quello che i genitori hanno raccontato riguarda una scoperta. Il tempo di quarantena, l’assenza di terapie e tecnici durante le prime settimane, ma la presenza con la giusta distanza mi verrebbe da dire, ha permesso loro di “prendere consapevolezza” delle proprie capacità genitoriali, delle loro capacità a far proprie le abilità, le tecniche, le conoscenze, la competenza che nei momenti precedenti alla pandemia avevano assorbito e fatto proprie. Probabilmente, la giusta distanza ha permesso anche a noi di dare spazio all'emergere di quel bisogno dei genitori di impadronirsi degli strumenti a disposizione e di crearne altri. Abbiamo dovuto tollerare quel vuoto che permette un movimento generativo, generazione di nuovi modi di stare in relazione, tra genitori e figli, tra noi e i genitori.

Infine, mi è sembrato di notevole rilevanza, “lo spazio” dedicato al raccontarsi e raccontarci. Quel tempo dedicato al confronto sull'esperienza vissuta che ha permesso loro di esplorare i propri vissuti e di doverli formulare per poterci dare un riscontro sulla attività svolta, quel tempo che ci ha permesso di restare in ascolto e capire qualcosa in più rispetto alle grandi potenzialità delle famiglie (che convivono con l’autismo, ma non solo) e degli interventi proposti.


Data l’esperienza fatta, posso concludere ricordando a me stessa sia la significatività del co-costruire insieme ai clienti i progetti d’intervento destinati a loro stessi, sia l’opportunità che si può ritrovare nel narrare momenti di vita rendendoli materiale per “apprendere dall'esperienza”.


A cura di Carlota Zorrilla Ruiz

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